“Sotto le stelle di Parigi”: due cuori e una capanna

Gli homeless di Parigi. Donne e uomini neocatacombali, che vivono nelle viscere fuligginose e maleodoranti della città, segregati agli sguardi di tanti occhi urbanizzati privi di curiosità, pietas, pathos e, soprattutto, di tempo per pensare. Viaggiatori schiavi, cioè, del lavoro che c’è e, soprattutto, di quello che non c’è! Claus Drexel, sciogliendo il nastro di una scatola regalo che preannuncia il prossimo Natale, dirige una superba Catherine Frot (Christine) e l’attore bambino Mahamadou Yaffa (Suli) nel film Sotto le stelle di Parigi, in uscita nelle sale italiane dal 25 novembre. Come nelle feste dei potenti, la sorpresa è Suli, un meraviglioso bambino dalla pelle scura, solo e abbandonato involontariamente dalla madre in fuga. Malgrado che il bambino non parli una sola parola di francese, sa comunicare tutto ciò che serve a Christine, un’anziana homeless. Un’autentica, scorbutica clochard o “barbona” all’italiana che, grazie alla complicità di un addetto alle pulizie, vive e alloggia clandestinamente in uno dei tanti anfratti del metrò parigino, con un affaccio all’esterno difeso da una pesante cancellata di metallo che si apre sull’argine della Senna. Le sue giornate sono un peregrinare senza meta, in compagnia di due borse di plastica stracolme, come quelle che si trascinano dietro tutti i vagabondi di questo mondo, In questa sua solitudine autistica, fatta di visite quotidiane alla mensa della Caritas e dell’incessante vagabondare per le strade di Parigi fino al calar della sera, si presenta nel dormiveglia la visione di un volto spaventato e infreddolito di un bambino dalle pelle scura, alla disperata ricerca della madre smarrita.

A quel punto, il reale del materno si impone alla follia di tanti anni di solitudine, i cui strati sovrapposti hanno formato una cicatrice rilevata, in grado di oscurare i ricordi di una vita lontana, che fu normale e forse felice e appagata, ma ridotta poi in cenere dalle fiamme di una presunta tragedia, come un album fotografico che brucia nel braciere. Ed è così che un essere costretto all’invisibilità, affetto da una zoppia e da una pinguedine che rendono faticosi e dolorosi i più semplici movimenti, riviene alla vita dovendo a tutti i costi trovare una soluzione per un piccolo innocente, che non avrà altra cura e rifugio se non le braccia stanche e i poveri stracci dell’anziana clochard. Proprio lei, Christine, che conosce la città meglio di chiunque altro, inizia il suo quasi magico viaggio con il piccolo Suli per il ritrovamento della madre naturale, scendendo con lui persino agli inferi dei cunicoli in cui si rifugiano i più poveri dei poveri, i senza dignità disposti a usare violenza contro chiunque per pochi spiccioli o un pacchetto di sigarette. Sbandati all’ultimo stadio capaci persino di privare delle due borse logore un’anziana psicolabile come Christine che, però, forse un giorno lontano, era stata un’astronoma di successo. Così, la ricerca della madre perduta cammina con le gambe e i piedi doloranti di una madre trovata per caso, provvisoria ma essenziale, che ha risorse inaspettate per curare in mezzo alla strada un bambino con la febbre alta, riscaldandolo con una pellicola termica dalle notti fredde e rigide di Parigi.

Tutto intorno all’anziana e al bambino ruota un mondo di pregiudizi, di istituzioni assenti o, al contrario, fin troppo presenti nel volto repressivo che tenta di prosciugare un mare di bisogni dell’immigrazione illegale e clandestina con i centri di detenzione ed espulsione, che non servono a nulla per arginare la marea. In una grande metropoli i controlli di polizia sono reti con le maglie sempre troppo larghe, che lasciano fuori nel mare scuro e profondo della marginalità urbana eserciti di illegali senza permesso di soggiorno, stretti gli uni agli altri nelle loro logore tende canadesi lungo chilometri di sottopassi. Così la marginalità dei nuovi venuti si stratifica su altre sacche pregresse di povertà, in un processo di degrado progressivo della società che sembra non avere mai fine. L’umanità dei buoni sentimenti e della solidarietà è costretta così a lavorare come una talpa, affiorando di tanto in tanto da una buca di potenziale, creata dall’insofferenza crescente di una popolazione autoctona che si sente non più padrona del proprio destino. Drexel ci mostra i mille dettagli di una città assediata da un esercito di giovani immigrati, alla disperata ricerca di un benessere che è divenuto un bene sempre più scarso anche per coloro che lo avevano dato per scontato, prima che il mostro della globalizzazione si appropriasse delle loro vite, riversando nella loro patria dorata le sofferenze e i bisogni del resto del mondo rimasto escluso, senza tutele e privo di sussistenza.

Ancora una volta, è l’Amore il dio che porta pace e conforto all’interno di questa triste civiltà globale, fatta di assediati e di assedianti, incapaci di dialogare tra di loro perché il bisogno ci rende simili agli homeless, scacciati dai templi del consumismo e, nei casi più sfortunati, riportati con la forza pubblica alla frontiera del Paese di prima accoglienza, per l’esame di una domanda d’asilo che verrà quasi certamente respinta in mancanza dei presupposti. Ma, quelle madri e quei bambini miracolosamente ricongiunti tenteranno di nuovo gli attraversamenti in mare sui barconi, sfidando la sorte che li vuole profughi per necessità e vocazione. Sperando che gli angeli come Christine spieghino le loro ali una volta che si siano persi nel Paese finto di Bengodi.

Aggiornato il 12 novembre 2021 alle ore 15:39