Opinioni a confronto: Italia, l’eterna Ammalata

“Ciao, Renato, buongiorno. Sulla storia d’Italia lungo il corso dei secoli sono stati versati fiumi d’inchiostro, non solo dai suoi scrittori, ma anche e soprattutto da quelli stranieri. Cominciamo col dire che le origini del nome del nostro “Belpaese”, come lo chiama Dante dal punto di vista estetico, e la sua stessa nascita come nazione con un popolo unito e concorde, sono molto discutibili. C’è chi ha scritto, sbrigativamente, che il suo nome deriva da Italo, re degli Enotri, una delle tante popolazioni che abitavano nella penisola (Giosuè Carducci in Levia Gravia si definì Enotrio romano), chi lo fa risalire al latino vitulus, vitello, derivato a sua volta da italói con cui i Greci designavano i Vituli, una popolazione che abitava nella punta estrema della nostra penisola, la regione a sud dell’odierna Catanzaro, i quali adoravano il simulacro di un vitello e perciò erano definiti “abitanti della terra dei vitelli”, una parola che in senso figurato aveva e ha tuttora significati spregevoli e offensivi. Il vitello è figlio di una mucca, e noi spesso diciamo “figlio d’una vacca”, “il vitello è uno sfigato, che ha la mamma vacca e il padre cornuto”. Questa sarebbe dunque l’Italia, di ieri, ma anche di oggi, visto che fra gli Italiani ci sono anche gli sfigati, in tutti i sensi che vengono attribuiti a quella parola. Sed de hoc satis”.

“Il nostro “Belpaese” sarà bello di fuori, per i suoi paesaggi, per i ruderi antichi, segno di una civiltà che oramai non c’è più, ma di dentro è un inferno: fra le risse, i contrasti e gl’insulti, le sue condizioni peggiorano sempre di più. Piazzato nella forma di uno stivale in mezzo al mare, con sei nomi diversi, Mediterraneo, Adriatico, Ionio, Tirreno, Ligure, di Sardegna, è stato sempre invaso da stranieri di tutti i Paesi, come sta accadendo anche adesso con i cosiddetti migranti, un fatto pressoché unico al mondo. Per la sua posizione e per le sue bellezze estetiche, per gli stranieri è sempre stato un invito ad infilarvisi dentro soprattutto nel periodo estivo, e per l’Italia è un bene soltanto sul piano economico. “Fanno pasqua i lurchi nelle lor tane e poi calano a valle”, scriveva Carducci riferendosi ai Tedeschi nella Canzone di Legnano”.

Per non andare troppo indietro nel tempo, risalendo all’epoca preromana quando lo Stivale era abitato da una cinquantina di popolazioni diverse che si combattevano fra loro, basta partire dalla celebre invettiva di Dante nel Trecento, “Ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta”, che si conclude con l’immagine di una vecchia donna “malata” che, distesa sul letto, non riesce a trovare la posizione giusta per alleviare i suoi dolori. Facendo un salto di secoli, ai tempi nostri sulle malattie d’Italia sono usciti una marea di libri sull’argomento (che occupano due scaffali della mia biblioteca), fra cui l’Italia malata di Luigi Preti, l’Italia l’è malada di Giorgio Bocca, l’Italia fragile di Prezzolini, l’Italia veniale di Luca Goldoni, l’Italia spezzata di Bruno Vespa e persino Porca Italia di Klaus Davi, una espressione di Guido Piovene quando alle elezioni la Sinistra fu battuta dalla Destra. Alla fine, arrivò l’Italia non c’è più di Giampaolo Pansa, che, liquidando l’intero Paese, ha spazzato via tutte le sue malattie. Ma su Internet ho trovato pure “questa Italia di m...a”, una parola usata anche dal direttore di un giornale, di cui non ricordo il nome, che scrisse testualmente: Dietro la svolta di Silvio Berlusconi c’è soltanto la m...a”.

Giuseppe Mazzini e Benedetto Croce dicevano che i mali d’Italia sono malattie “morali”, richiamandosi all’antica e profonda immoralità di un “volgo disperso che nome non ha”. Oggi, invece, uno psichiatra l’ha definita “un Paese malato di mente”, pieno di esibizionisti, masochisti e fatalisti, degno da ricovero, ma purtroppo, ha aggiunto, i manicomi non ci sono più. E interrogato sui sintomi della malattia mentale dell’Italia, ha risposto il primo è il masochismo nascosto, il piacere di trattarsi male e quasi goderne, il secondo è un individualismo spietato, il terzo è la recita, nel senso che gl’Italiani non esistono se non parlano, esistono per quello che dicono non per quello che hanno fatto”.

La definizione degli Italiani malati di mente” mi ricorda una frase di Francesco De Sanctis, il quale, riferendosi all’uomo “savio” del Guicciardini, che secondo il grande critico riassumeva tutti i vizi della “razza italiana”, la simulazione, l’opportunismo, l’interesse per il tornaconto individuale, la divaricazione massima tra il pensiero e l’azione, così concludeva: “L’Italia perì perché troppi erano i savi e troppo pochi i pazzi”, intendendo per pazzi non quelli che hanno perso il lume della ragione, ma quelli che hanno la forza e il coraggio di agire come richiede il momento. Dante, il mio primo punto di riferimento in tante occasioni, parlando dell’Italia, diceva che spesso il male è “il preludio di un bene futuro che noi ancora non conosciamo”, ma sono passati secoli o millenni e questo bene futuro sino ad ora non è arrivato, anzi, si sono aggiunti sempre nuovi mali. E pensare che l’Italia è una terra meravigliosa, che elargisce, a noi e al mondo intero, stupende opere d’arte, acuti saggi letterari e filosofici, personaggi eccellenti in ogni campo, dalla politica allo sport. Ma sembra che gl’Italiani, presi così nell’insieme, dormano, come si dice, sugli allori, cioè si accontentino della gloria dei loro lontani antenati, come se questa potesse riversarsi anche su di loro. Certo non dobbiamo fare di tutta l’erba un fascio, ogni individuo ha una sua personalità e va visto e giudicato nell’insieme, cosa che molti non fanno: si soffermano infatti su un aspetto della persona, o su un fatto solo, isolandolo dal contesto, per poterne dire peste e corna, e da quello traggono il loro giudizio, che naturalmente non è obiettivo, ed è qui che si vede la faziosità, che si riversa in ogni campo, persino nello sport, come tu ben sai, poiché sei vicepresidente della Lazio nuoto”.

“Anche lì gl’italiani che lo praticano pubblicamente non sempre si comportano bene. Lo sport non è soltanto un passatempo, è anche un mezzo di crescita. Per questo molti pedagogisti lo ritengono come l’attività educativa per eccellenza. Oggi lo sport non è soltanto un fatto di passione, investe anche il mondo degli affari e del commercio. Un tempo lo si praticava con lealtà e correttezza, ma oggi non è più così: il fine dello sport è diventato il guadagno, il denaro, che spesso induce ad atti che sono proprio contrari alla lealtà e alla correttezza. Lo sport affratella i popoli, più di qualunque altra manifestazione o ideologia. Questo fu appunto lo scopo per cui nacquero, in Grecia, nel 776 avanti Cristo, i Giochi Olimpici. L’etica è uno dei princìpi basilari dello sport, il quale, come qualsiasi professione, compresa la politica, ha un suo codice morale. Come quello degli antichi cavalieri medievali, nobili, cortesi, altruisti, generosi, per i quali potrebbe valere il motto dei Moschettieri di Dumas: “Uno per tutti, tutti per uno”. Possiamo dunque dire, almeno per lo sport, “Italiani brava gente”? Forse sì, ma essi restano un popolo tra i più litigiosi d’Europa: lo sostiene il Censis, Istituto di ricerca socio-economica, che nell’annuale rapporto sulla situazione sociale nel bel Paese evidenzia un clima in cui si afferma con forza il primato dell’io e la convinzione che le regole, anche quelle scritte, siano relative”.

Solo nel Ventennio il popolo italiano è stato unito e concorde, perché finalmente era arrivato il “Messia”, l’Uomo della Provvidenza (così lo chiamò il papa), che Carlo Emilio Gadda in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, superando tutti i voltagabbana, definì “un pagliaccio”, “una caricatura grottesca degna d’essere derisa”, “un buffone da circo”, un “falsario”, un “fallito”, un “servo che nutriva un sentimento vendicativo d'inferiorità”, un “vassalluccio d’intrallazzo”, un “ladro di casseruole e pentole”, un Maledito Merdonio dictatore impestatissimo, e via di questo passo sino a cinquanta epiteti. Una delle tante frasi che non sono ancora riuscito a digerire, dopo il “Voi della Destra siete impresentabili” di Lucia Annunziata, è quella di Andrea Romano, che si fregia anche del titolo di accademico, il quale in un dibattito televisivo con Alessandra, nipote di Mussolini, ha detto che lo scempio di Piazzale Loreto è “comprensibile”, nel senso di “giustificabile”. La conclusione è che per cambiare gl’Italiani bisogna prima cambiare l’Italia. Un’Italia sana, in tutto il suo corpo, in cui ogni cosa funziona, la politica, la giustizia, l’economia, il lavoro, la sanità, la scuola, l’informazione, la televisione, la sicurezza e così via, può veramente cambiare i cittadini, eliminare le discordie, gli scontri, ideologici e fisici, in poche parole pacificare gli animi e dare finalmente agli Italiani quell’unità di cui tanto si parla ma che ancora non s’intravede. In questi giorni si è tornati a parlare di fascismo e antifascismo. Ebbene, Flaiano diceva che gl’Italiani si dividono in fascisti e antifascisti, ma che gli antifascisti sono più fascisti dei fascisti. Carducci in Piemonte così concludeva Rendi la patria, Dio, rendi l’Italia a gl’italiani”.

Udite, anime belle

della Sinistra italica,

la cui rabbia ribelle

ogni legge travalica.

Tanto vi rode il tarlo

dell’odio e tanto siete

negati alla dialettica

serena ed educata

che alla Destra gridate:

“Io con voi non ci parlo!”,

“Ma voi che cosa siete?”,  

“Voi siete impresentabili”.

Incominciaste voi

nel primo dopoguerra,

uccidendo gli eroi,

prendendovi la terra,

inquinando i canali

e gli abbeveratoi,

massacrando animali,

mucche, pecore, buoi.

Violenti ed efferati,

nelle vostre schermaglie

strappavate ai soldati

dal petto le medaglie.

Prendevate a legnate

anche i carabinieri,

di morti riempivate

le strade e i cimiteri.

Facevate gli eroi.

Questo il vostro abbiccì.

Incominciò così:

i primi foste voi.

Gli altri vennero dopo,

muovendo alla difesa,

o al solo e puro scopo

di vendicar l’offesa.

Del resto allora Croce,

il grande liberista,

chiamava, com’è noto,

“grande industria del vuoto”

la scuola socialista,

Con un piano insensato,

contrastando il destino,

spianavate il cammino

al ras di un altro Stato.

“Faremo come i Russi,

come Lenìn faremo!”,

era, fra botte e bussi,

il vostro grido estremo.

Così, di questo passo,

inviperiti e scaltri,

voi lanciavate il sasso

e accusavate gli altri.

Fu questa l’atmosfera

in cui nacque il Regime:

altra strada non c’era.

Oggi questo antefatto

sui libri non ha testo,

ma è dal vostro misfatto

che venne tutto il resto.

Poi, caduto il fascismo,

con mille astuzie ed arti,

invertiste le parti:

eroi del vittimismo,

riscriveste la Storia,

capovolgendo i fatti,

mutando il prima in dopo.

O sbirri inquisitori,

o grandi lestofanti,

che avete dei censori

le facce più arroganti,

perché, tra il nero e il rosso,

non siamo tutti uguali.

Ma se nella dialettica

convivono i distinti,

perché la fate scettica

e ci volete estinti?

Eppure gl’Italiani

sono metà e metà:

gli stupidi e i villani

sono di qua e di là.

L’Italia grazie a voi

è un Paese allo stallo:

sempre davanti a noi

il semaforo è giallo.

Fanatici, alle corte,

cessate di cantare:

con quelle bocche storte

c’è poco da sbruffare.

Tra i salmi dell’Uffizio

c’è anche il Dies irae:

o che non ha a venire

il giorno del Giudizio?

Aggiornato il 27 ottobre 2021 alle ore 15:22