“#IoSonoQui”: storia di una “buca” internazionale

Vi ricordate “Chi” fece i gattini ciechi per la fretta? Ma la gatta, che diamine! Ora, nel caso del social Instagram la faccenda non appare poi così scontata, dato che Photoshop, con i suoi mirabolanti fotomontaggi, permette di comporre l’assurdo e il reale a dosi arbitrarie. La verità è certamente una quercia sontuosa che mostra i suoi immensi tentacoli arborei alla luce cangiante del giorno. Un vero, autentico ed eccezionale quadro della Natura, in vendita per nulla. L’assurdo, invece, sta nel credere di conoscere la storia di un albero catturandone semplicemente l’immagine. I membri di alcune tribù primitive uccidevano gli incauti pionieri che li fotografavano, perché ritenevano rubassero il loro spirito imprigionandolo all’interno dell’immagine fotografica. #IoSonoQui del regista Eric Lartigau, in programmazione nelle sale italiane a partire dal 14 ottobre, è il paradossale racconto dell’avventura esotica di un bravo cuoco della Provenza francese, che ha il suo delizioso ristorante bucolico di pietra e legno adagiato su di una specie di mesa, che sovrasta un paesaggio collinoso, dolce e morbido come certe portate raffinate da tre stelle Michelin. Dalla sua, una famiglia “larga”, con vari aiutanti cuochi, camerieri, una brava maître di sala che si occupa dei rifornimenti, due figli di cui uno appena sposato ma bisessuale, mentre un secondo ha tutta l’aria e le doti necessarie per ereditare l’attività paterna. Poi, c’è una moglie divorziata ma non troppo, con spiccate tendenze da chioccia che tiene unito passato e presente perché tanto non si sa mai.

Poi c’è lui: il grande protagonista. Il suo nome è Instagram che fa la fortuna di illustri sconosciuti qualora siano in grado, con qualche banalità o vera prodezza, di coagulare sul proprio profilo fortunato milioni di follower, che formano una platea globale di persone del tutto sconosciute ma connesse tra di loro. La meraviglia di lingue, ideogrammi e scritte di ogni tipo che si sovrappongono le une alle altre, rinviando ai quattro angoli del mondo la pelota dell’occhio digitale di una telecamera mobile, è qualcosa che impressiona, sbalordisce e atterrisce. Ma chi mai, quale demone sarà in grado di controllarne quella potenza che assomiglia a un vulcano fantasmatico di immagini in libertà? Così l’aeroporto di Seul, il più immaginifico del mondo, fucina instancabile di eventi e multizentrum straordinario di servizi di ogni tipo, diviene al contempo palestra e teatro, palcoscenico su cui esibirsi e casa di abitazione precaria e provvisoria di Stéphane, il cuoco ristoratore, che gettando alle ortiche la sua vita di sedentario in attesa del nulla, parte in terra incognita, con un volo di decine di ore, per inseguire un suo miraggio, generato dal Demone Instagram in cui un sì è un no, e laddove un volto anonimo diventa la Gioconda, mentre l’età matura insegue e riscopre di continuo quella giocosa di una gioventù passata.

L’aerostazione più tecnologica del mondo diventa allora una grande giostra dove si esibisce, tra l’ignaro e il malizioso, un french lover che attende per decine di giorni, invano, la sua Godot asiatica, per scoprire che in quella figura minuta, in quel volto anonimo sono racchiusi milioni di volti simili, di gesti comuni che un popolo di antiche tradizioni apprende dalla nascita per lezione atavica. Trionfa lo spazio chiuso, seppur malato di gigantismo, con le sue donne delle pulizie aggraziate e semoventi, le sue hostess e cameriere perennemente sorridenti, pazienti all’inverosimile, che parlano coreano tra di loro ma si sforzano oltremodo di capire il linguaggio dell’ospite, sempre decisamente maccheronico, tra uno scarso inglese con vocabolario limitato e un francese che, ovviamente, nessuno capisce, alla faccia della grandeur e dello sciovinismo imperante. E così avviene l’implosione del troppo dentro (nel senso dell’interior), malgrado sia ravvivato addirittura dall’interazione con gli atleti allegri di una squadra di basket francese in trasferta a Seul, per non parlare delle équipe musicali tutte composte o da maschi o da femmine. Vince così, all’improvviso, il richiamo del regno di fuori che spinge come un liquido amniotico il feto all’esterno di quell’utero della campagna francese, alla ricerca del mondo che più sconosciuto non si può, come un mercato popolare coreano all’aperto o un parco di straordinaria bellezza con la sua coorte arborea di ciliegi in fiore.

E sarà per Stéphane la scoperta dell’amore vero, quello che ti vive da sempre accanto senza che tu te accorga, come lo sono i tuoi due figli, la vera ricompensa del protagonista per aver, finalmente, osato (ri)nascere in un Paese distante decine di migliaia di miglia dal suo opprimente berceau francese. Avendo soprattutto appreso la lezione delle parole che denegano e dei dipinti che mentono sulla loro origine e sulla mano autentica dell’autore.

Aggiornato il 11 ottobre 2021 alle ore 13:52