“First cow”: la frontiera amara

Come avvenne la conquista del West? Probabilmente in modo del tutto opposto a quello propagandato da una filmografia altamente stereotipata (“bianchi buoni/indiani cattivi”). Sporchi, brutti e cattivi erano davvero i primissimi coloni dell’Oregon Country, coperti di cenci e costretti per spirito di avventura a una vita miseranda, tra grandi povertà, ubriachezza e violenza. Il film “First cow” (“La prima mucca”) – fruibile dal 9 luglio esclusivamente sulla piattaforma Mubi – della regista Kelly Reichardt, basato sul romanzo di Jonathan RaymondThe half-life. A novel”, si presenta con una cura scenografica e uno studio etnografico di prim’ordine, che fanno dell’opera un perfetto documento iconografico di Come eravamo

Una natura verginale e incontaminata è la vera padrona e proprietaria del sistema narrativo, che inizia con un uomo affamato intento a cogliere dei funghi commestibili nel sottobosco per mangiarli crudi, croccanti come un frutto acerbo, mentre la sua mano avvolta in stracci luridi per ripararsi dal freddo rovescia una lucertola caduta sul dorso, perché riprenda a muoversi liberamente. Poi, ci sono silenziosi e solenni i nativi indiani d’America, i loro costumi e coprispalle fatti di lunghe foglie secche; i modi di camminare, vestirsi e svolgere attività sociali accanto alla comunità dei bianchi allo stato brado, senza libri né Stato. E quel loro essere degli aborigeni così naturali e consustanziali all’ambiente selvaggio, li eleva in senso etnologico ben al di sopra della non-cultura di cui si fanno portatori i nuovi invasori.

All’epoca (siamo nel 1820) l’Oregon Country era una regione contesa della costa pacifica del Nord-Est, occupata a partire dal 1810 e fino al 1830 dai commercianti di pelli inglesi e francesi che si insediarono lungo le sponde del Columbia River, sotto la protezione dell’American Fur Company (“La Compagnia”, nei dialoghi dei protagonisti). Ma non ci sono nel film né massacri né violenze tra i due gruppi umani che, semplicemente si ignorano, contaminandosi quanto basta a debita distanza, per trarre un minimo di reciproca sussistenza, caratteristico della dominazione anglo-francese, orientata alla convivenza pacifica con gli indigeni.

È, in fondo, il regno dei primi trapper che catturavano e commerciavano animali da pelliccia, a quel tempo molto numerosi e diffusi, come i castori. La storia, costruita tutta attorno ai passi lenti, alle frasi asciutte e dense dei protagonisti illetterati, narra dell’amicizia profonda tra un cinese cosmopolita, braccato da avventurieri venuti dalla Russia e un colono aspirante cuoco, che trova il suo malpagato e miserando lavoro come cuciniere accompagnatore di una piccola compagnia di trapper. Il forte al quale sono diretti è quanto di più lontano si possa immaginare ricordando le gigantografie hollywoodiane di Fort Apache, con le sue palizzate enormi e gli accasermamenti impeccabili.

Il realismo viscontiano della Reichardt ci mostra la costruzione così come la si può vedere nelle stampe d’epoca, poco più di una semplice palizzata al cui interno, e questa è una vera sorpresa, non si vede mai un soldato! Il cuoco e il cinese sono due anime gemelle e pie, in cui il primo è pervaso da uno spirito francescano che ama le creature di Dio, mentre il secondo immagina il sogno americano dell’arricchirsi lavorando o, all’epoca, coltivando l’illusione del colpo di fortuna, come quello di trovare pepite d’oro nel letto dei fiumi.

Poiché, però, le mani d’oro le ha il suo amico cuoco, ecco che si presenta l’occasione per inventarsi una mini pasticceria di strada, portando nell’area mercatale del forte biscotti fatti in casa in un forno primitivo ricavato all’interno di una rudimentale baracca di sterpi e foglie (così simile a quelle che, ancora oggi, erigono i clandestini lungo le sponde dei fiumi delle grandi città italiane!). Solo che, per renderli appetibili risulta introvabile l’ingrediente principale: il latte vaccino. La situazione cambia quando arriva nell’accampamento, su una chiatta che fa servizio lungo il fiume, una mucca da latte di proprietà del sovrintendente della Compagnia. Un funzionario inglese azzimato e nostalgico della vita londinese mandato nella colonia a curare gli interessi della madrepatria, ma più adatto a gestire il commercio degli schiavi che un rudimentale abbozzo di società urbana.

Così i due inseparabili amici fanno come il Gatto e la Volpe: uno, di notte, sale di vedetta su un albero, mentre il complice più esperto di campagna munge clandestinamente l’unica vacca di tutta la zona, incautamente ormeggiata nei pressi della lussuosa casa padronale. Occorre dire che, all’epoca, rubare qualcosa a qualcuno (in questo caso di specie il latte munto direttamente dalla mammella della mucca, senza l’autorizzazione dal proprietario) significava la condanna a morte senza passare per un tribunale.

Ma quel latte valeva il rischio per sognare una vita migliore, come la gestione di un alberghetto lungo qualche via di transito, o di una panetteria per sfamare i nuovi conquistatori. La fine della storia parte dall’inizio, ma la Reichardt lascia allo spettatore la chiave risolutiva che, in apparenza, sta nelle mani di un Uriah Heep (alla David Copperfield) ante litteram.

Aggiornato il 25 giugno 2021 alle ore 17:03