Il primo giugno 1967 esce in Gran Bretagna Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, un disco che lascia i fedelissimi attoniti e la stampa divisa: il New York Times giudicò il disco come “un album di effetti speciali, abbagliante ma alla fine fraudolento”. Poi però la storia farà il suo corso.

Ma cosa era successo di così incomprensibile ai Beatles? In pochissimi anni – il loro primo disco, Please Please Me, era uscito nel 1963 – i Beatles passano dalla fumosa cantina del Cavern Club di Liverpool allo Shea Stadium di New York (il primo grande concerto in uno stadio) e poi al Candlestick Park di San Francisco dove, il 29 agosto 1966, la band decide di non esibirsi più dal vivo. Dopo quasi 4 anni passati ininterrottamente in tour e 1.400 concerti davanti a folle in delirio che gli impediscono anche di sentirsi tra di loro i Beatles dicono basta.

Oltre alla stanchezza e la frustrazione c’è l’esigenza di tornare in studio per creare, per cercare nuove vie, per ritrovare un senso nell’essere la band più famosa di tutti i tempi – celebre la frase di John Lennon “siamo più famosi di Gesù Cristo” che scatenò le ire funeste dei benpensanti statunitensi – non più come i ragazzi con i capelli a caschetto che infiammano i cuori delle ragazzine, ma come i quattro artisti che avevano cambiato il modo di fare musica ma che rischiavano di venire schiacciati dal loro stesso mito.

Si prendono una pausa, si dedicano a interessi e passioni personali, e il 24 novembre del 1966 sono tutti negli studi di Abbey Road – chi più carico, chi meno convinto – ma tutti con nuova linfa da immettere nel gruppo. Ci sono già pronti due pezzi ma non si può aspettare il nuovo disco, è necessario dare un segnale di vitalità e creatività. Il segnale arriva forte e chiaro, il 17 febbraio del 1967 esce un 45” con due A-Side, “Penny Lane” e “Strawberry fields forever”. Il cordone ombelicale con i FabFour della beatlemania è definitivamente reciso.

Le nuove musicalità che stanno sperimentando sono uno specchio dei tempi. Siamo negli anni Sessanta, i movimenti a favore dei diritti civili, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam, il risveglio della coscienza dei giovani, i dubbi, le ambizioni, la possibilità e la volontà di far sentire la propria voce, il flower power che esploderà nel 1969 con il concerto di Woodstockthree days of peace and music” trovano in Sgt. Pepper il loro spazio.

Per prendere ancor più le distanze da ciò in cui non si rispecchiano più danno vita ai loro alter ego, la banda dei cuori solitari del Sergente Pepper, e lasciano loro il compito di raccontare le storie di un album che di record ne colleziona veramente tanti. Nel Guinness dei primati è presente per il maggior tempo passato tra due diverse scalate della classifica inglese di uno stesso album: al primo posto per 23 settimane consecutive nel 1967 e nuovamente primo per vendite nel 2017 in occasione della ristampa per i cinquant’anni. Rolling Stone gli ha attribuito il primo posto nella classifica dei 500 migliori album di sempre. Per la prima volta un disco si apre a libro e nei lembi sono addirittura nascosti dei gadget: baffi, gradi da sergente e il logo della Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, da ritagliare. Ma soprattutto è il primo album con i testi delle canzoni.

Il disco contiene diverse canzoni famose come “With a little help from my friend”, “Lucy in the sky with diamonds”, “She’s leaving home”, “When I’m sixty-four”. Però Sgt. Pepper viene ricordato soprattutto per l’ultima traccia, da molti giudicata la loro migliore produzione. A day in the life, una canzone complessa che vede il duo Lennon-McCartney incredibilmente affiatato e creativo. Un pezzo caratterizzato da sonorità contrastanti, apparentemente dissonanti e distoniche ma sicuramente ipnotiche. La canzone è più lunga della media, non ha un ritornello e ti cattura in un vortice che ti stupisce ad ogni cambio di direzione e di contenuto, dalla guerra a fatti di vita quotidiani, dagli eventi di cronaca alle esperienze lisergiche, risultando orecchiabile e musicalmente perfetta. Anche il finale della canzone è un capolavoro, un crescendo eseguito da un’orchestra di 45 elementi cui fu chiesto di suonare partendo dalla nota più bassa del proprio strumento arrivando alla più alta ma sempre sull’accordo di Mi maggiore creando un climax emotivamente molto forte. Chiude un altro gioco di accordi impossibili – come già avevano fatto all’inizio di “A hard day’s night” – cui si aggiunge un fischio di 20mila hertz, udibile solo dai cani ma non dall'uomo.

La copertina di Sgt. Pepper, disegnata dagli artisti pop Peter Blake e Jann Haworth e fotografata da Michael Cooper, si aggiudica il Grammy come migliore cover nel 1968. Sono rappresentati 70 personaggi famosi di fronte ai quali i Beatles avrebbero voluto esibirsi: Albert Einstein, Marlon Brando, Karl Marx, Edgar Allan Poe, Dylan Thomas, Lenny Bruce, Bob Dylan, Mae West, Aleister Crowley, Stanlio e Ollio, Lewis Carroll. Una copertina che cela anche misteri irrisolti, una leggenda nota come Pid, acronimo per Paul is dead, che continua a far divertire i fan nel cercare e trovare le inconfutabili prove che i Beatles smisero di suonare perché McCartney era morto il 9 novembre 1966 in un incidente stradale e da allora in poi il suo posto era stato preso da un sosia.

E di prove la copertina di Sgt, Pepper ne è piena. Solo per citarne alcune: per terra una scritta quasi funebre “Beatles” con un violino o meglio un basso – l’Hofner di McCartney? – formati da una composizione di fiori e al basso manca la quarta corda. Inoltre, Paul è l’unico che guarda frontalmente e, sul retro, è l’unico di spalle ed è insolitamente alto… perché non è lui ma il sosia ovviamente! I fan di tutto il mondo troveranno la prova definitiva della morte di Paul McCartney nella copertina di Abbey Road. Ma questa è un’altra storia… “I read the news today oh boy”.

Aggiornato il 31 maggio 2021 alle ore 11:27