La libertà di Savinio

Ho la nausea e i conati, ho il voltastomaco da giorni per l’inaccettabile massacro che questo “nuovo” Governo sta compiendo sulla pelle del popolo italiano. Quindi voglio scrivere d’altro.  Voglio scrivere di vita libera e di qualcosa di bello che elevi lo spirito, oppresso dalla follia sanitaria. Scriverò della mostra appena aperta a Roma, a Palazzo Altemps, di Alberto Savinio, quel “Savinio” pittore e forse ancor più scrittore e musicista, fratello del più noto Giorgio De Chirico, più di lui surrealista, visionario, penna eclettica ed eccellente negli anni Trenta del settimanale Omnibus diretto da Leo Longanesi, dove fu critico e persino costumista teatrale.

L’avanguardia poetica e pittorica di Savinio lo porta oltre i silenzi ferraresi dipinti da suo fratello a incontrare spesso i miti antichi della classicità pagana del Mediterraneo, con immagini talvolta inquietanti, talaltra suggestive e fascinose che rievocano gli Argonauti e Orfeo, Edipo e la sua Sfinge, i Centauri e altre favolose creature. Novanta opere esposte sino a giugno, in uno dei più bei palazzi patrizi romani che chissà chi potrà vedere e ammirare, sotto le museruole inutili e inique, distanziati invece che abbracciati languidamente davanti all’arte a sognare luoghi meravigliosi e fantastici. L’allestimento è sinestesico e multisensoriale, visto che nella Sala del Galata si può ascoltare l’Oedipus Rex diretto da Herbert von Karajan con il commento di Arnoldo Foà, mentre nella Sala Mattei l’udito può immergersi nei Les Chants de la mi-mort, composti sempre da Savinio nell’anno iniziale della Grande Guerra.

Ibridi tra uomini e animali, foreste misteriose, strani giochi e innumerevoli altre applicazioni dell’alata e sfrenata fantasia dell’artista si snodano lungo le sale rinascimentali, a dimostrazione di come le avanguardie del primo Novecento non si riducano tutte al Futurismo ma lo trascendano con il loro afflato fantastico, muovendosi lungo le correnti eteriche dell’altro e dell’altrove, tra versi e immagini in cerca di un’arte totale che non rinneghi il passato, ma getti uno sguardo di là da quella porta socchiusa sul futuro.

Dipinto simbolo di tutto questo pensiero divenuto arte immaginifica è Orfeo, del 1929, il cui corpo si trasforma nella sua stessa arpa, proveniente dal Museo d’Arte Moderna di Parigi. Non mi resta, dunque, che invitarvi alla più sottile delle ribellioni ai ceppi che ci vogliono obbligare alla tristezza e alla solitudine, alla distanza dei corpi e delle anime. E sino a giugno, in una nuova primavera che nessuno ha il diritto di sottrarci, prendete per mano chi amate e recatevi a Palazzo Altemps. Poi, con ancora gli occhi colmi di quelle visioni oltremondane, uscite e camminate per la città, come se il mondo fosse sempre quello che dovrebbe essere, un luogo ove andare in cerca di qualcosa che lo renda migliore.

Aggiornato il 16 febbraio 2021 alle ore 14:08