L’italiano, questo strapazzato

L’abuso di WhatsApp, sms e mail ha ormai comportato, oltre a mille cambiamenti sociali, anche il rapido decadimento del rispetto verso la lingua italiana, sacrificata ormai alla voglia di farsi capire presto e senza fronzoli. Questo sarebbe tollerabile se fosse solo una scorciatoia fra le persone che la lingua la conoscono bene, invece è purtroppo diventato il giustificativo dell’ignoranza per la maggior parte dei giovani e no. Così nessuno si cruccia più dei grossolani errori commessi perfino da giornalisti e politici in tivù. Eppure basterebbe ricordare anche solo alcune, fra le tante regole calpestate, per recuperare, se non la scioltezza di Alessandro Manzoni, un’eleganza che non farebbe male a nessuno. Speriamo di non essere interpretati come secchioni, o peggio ancora zelanti professori, poiché non siamo né l’una né l’altra cosa. E andiamo avanti con la scelta di alcuni “mostri” diffusissimi e il relativo commento.

Ministra, Sindaca…

Iniziamo dalla (sciagurata) novità più diffusa, ormai sulle bocche di tutti i giornalisti e degli stessi personaggi, che non si sono mai ribellati nel sentircisi chiamare. Il femminile di queste parole semplicemente non esiste ancora sui dizionari, salvo vederlo autorizzato dalla pur rispettabile Accademia della Crusca, forse per rispetto delle idee sessiste. Tre osservazioni: la prima, che la suddetta Accademia, nel riportare i femminili consentiti, ha messo nello stesso pacchetto parole come avvocatessa, senatrice, presidentessa con altre nuove come avvocata, senatora eccetera, non distinguendo i femminili classici da quelli recentemente inventati. La seconda, che riferirsi al sessismo ci sembra un boomerang, perché non c’è niente di male a dire, per esempio, “Il ministro Luciana Lamorgese è stato ascoltato in Parlamento”. La terza, forse quella che grida proprio vendetta, riguarda la cacofonia di queste parole, almeno per le orecchie di chi ha un po’ di gusto, per esempio: ministra, quanta mancanza di stile!

Anche no!

L’ultima novità sulla bocca di molti è “anche no!”, in sostituzione di “no, grazie! – meglio di no!” Qui fatichiamo a trovare l’errore grammaticale, ma quella forma ci appare come un’autentica stecca, che stona come il grido di un gabbiano.

Piuttosto che

L’utilizzo capovolto di “piuttosto che” si è diffuso, recentemente, come un’epidemia. Chissà perché quando uno sbaglio piace, se ne abusa e tutti gli altri ci vanno dietro. “Piuttosto che” significa questo o quello e non questo e quello. Perfino molti politici usano l’espressione in modo sbagliato, creando i loro elenchi uniti da “piuttosto”: Per esempio, “Votano così a Firenze piuttosto che a Bologna” non significa, come vogliono intendere i molti che lo dicono, che a Firenze e a Bologna si vota nello stesso modo, ma che a Bologna si vota in un modo e a Firenze in un altro.

Sia… che...

La quasi totalità degli italiani usa l’espressione sia… che. La qual cosa non è un vero errore, ma è vivamente sconsigliata per lo stile e per la chiarezza! Primo e secondo termine di una relazione dovrebbero essere questi: tanto… quanto, tanto… che oppure sia… sia, ma non sia… che. Anche perché “sia” è una congiunzione mentre “che” può essere sia congiunzione sia pronome relativo. Per esempio, “sia lui che è un uomo che lei che è una donna” è certamente meno chiaro di “sia lui che è un uomo sia lei che è una donna”. E non vogliamo ripeterci anche qui ricordando lo stile ancora una volta assente.

Affatto

Affatto, da sempre e quasi sempre, è usato come negazione, mentre è un avverbio che ha valore rafforzativo della frase che appoggia. Alla domanda “ti disturbo?” la risposta “affatto” significa “certo che sì!” mentre la quasi totalità della gente lo usa per intendere “per niente!”. Invece per negare bisogna rispondere “niente affatto” oppure “affatto no”.

Come al solito

L’espressione “come al solito” è talmente comune che, pur sapendo che è sbagliata, anche noi preferiamo usarla ugualmente, anche perché per una volta l’errore suona meglio della frase esatta. Che è “Come il solito”.

Fino a che sarà spento

Sui voli, specialmente Alitalia, per anni abbiamo ascoltato e imparato a memoria la raccomandazione “fino a che l’apposito segnale sarà spento”. Poi qualcuno più zelante di noi, o che volava molto più spesso, non ce l’ha fatta più e gliel’ha detto, altrimenti difficilmente l’avrebbero aggiornata. L’espressione giusta è “fino a che l’apposito segnale non sarà spento”!

O non

In una pubblicità televisiva risalente ai tempi del bianco e nero c’era un cartone che concludeva il suo discorso con una domanda che, allora, suscitava ilarità: “o non?”. La battuta nel tempo è dilagata ed oggi si usa comunemente, al termine di una frase, la negazione “non”, addirittura seguita da un punto. L’espressione giusta invece è “no”! Prendete, per esempio, la frase che conclude il primo capoverso di quest’articolo.

Signor Ministro

Altra usanza recente e ormai diffusa al 100 per cento è l’utilizzo abbreviato degli appellativi. Ci si rivolge a un ministro interpellandolo seccamente con la sua carica, perfino nei più titolati talk show, mentre in passato esistevano, e non era male, una serie di titoli obbligatori quando ci si rivolgeva a una personalità. Oltre a “Santità”, “Eccellenza” eccetera, si diceva “Signor Ministro”, “Signor Sindaco” e via dicendo. Sappiamo che questa osservazione ci farà deridere e considerare uomini arcaici, sempre come conseguenza dei concetti in premessa. Va bene, fate pure, siamo qui in attesa di quando, fra poco, vi rivolgerete al pontefice apostrofandolo, invece di santità, magari con “ci dica, Papa”.

Pericolo di vita

È davvero un controsenso, quando ce la vediamo brutta, dire che siamo in pericolo di vita. Pensiamoci un attimo: il pericolo da specificare non è certamente quello di vivere! L’espressione giusta è: Pericolo di morte!

Aggiornato il 28 febbraio 2020 alle ore 12:46