Edmond de Goncourt, il grande scrittore francese dell’Ottocento, ha coniato uno degli aforismi più veri sull’arte: “La cosa che sente più stupidaggini al mondo è molto probabilmente un quadro di museo”.
Oggi due eventi culturali all’estero dimostrano l’indubitabilità di tale assioma, che comunque resta valido anche per il nostro Paese. Il primo riguarda l’azione promossa da un gruppo di vegani inglesi dell’Università di Cambridge, dove alcuni di loro, giovani militanti dell’astensione dalle carni (da ogni tipo di carnalità dunque, dovrebbero astenersi), sarebbero scesi in piazza dichiarando uno sciopero della fame (troppo facile ragazzi, troppo facile fare lo sciopero della fame da vegani…) sino a quando un dipinto ad olio del pittore barocco Frans Snyders, esposto al Fitzwilliam Museum dell’ateneo britannico, recante il titolo di The Fowl Market e facente parte della mostra “Feast & Fast: The art of food in Europe, 1500-1800”, fosse rimasto alla vista di tutti.
L’opera incriminata raffigura un macellaio attorniato da carcasse di volatili e altra selvaggina. Il naziveganesimo colpisce ancora quindi, imponendo la propria visione del mondo, la propria idea come unica valida su qualsiasi altra. Una dittatura “subculturale” che alla fine è riuscita a prevalere, visto che i responsabili del museo hanno fatto rimuovere l’opera d’arte del pittore fiammingo. Chissà cosa avrebbero detto gli oltranzisti del Tofu, se il quadro esposto fosse stato Saturno che divora i suoi figli, di Francisco Goya, visto che in quel dipinto è evidente una scena di antropofagia famigliare. Oppure per le tavole simboliche di Arcimboldo, o per il Bue macellato, dipinto a suo tempo da Rembrandt, solo per citare alcuni fra gli innumerevoli esempi possibili.
Il viziato atteggiamento radical-chic dei vegani fondamentalisti, sufficientemente pasciuti dal punto di vista economico, gli consente non soltanto di foraggiare un’industria costosissima e selvaggia come quella dei cibi non animali, facendo sì che quel tipo di alimentazione costi più di un’arista di maiale, pertanto che possano seguire quel tipo di dieta soltanto le classi più abbienti. E a farne le spese, ovviamente, è l’arte.
Secondo caso, più divertente se non ridicolo. A me personalmente Emiliano Zapata Salazar sta profondamente antipatico, anche perché probabilmente fu lui a far uccidere quel genio della letteratura che fu Ambrose Bierce. E a me questo basta per non trovarlo degno di menzione favorevole, tuttavia in Messico il rivoluzionario è un mito che ha una mostra dal titolo Emiliano: Zapata después de Zapata in occasione del primo centenario dal suo assassinio, nel Palazzo delle Belle Arti di Città del Messico dove l’opera di Fabián Cháirez, La Revolución, ha sollevato un pandemonio poiché mostra il guerrigliero messicano su un cavallo bianco dal membro equino in bella mostra, nudo con soltanto un nastro tricolore ad avvolgerlo, con i tacchi a spillo e un sombrero rosa in testa. Non molto macho si direbbe per uno che nella realtà andava in giro ricoperto da cartuccere e pistole. Un dipinto che invece ha scatenato subito gli ovvi applausi del mondo Lgbt, perché inneggiante all’omosessualità, al queer, al “non binario”, che secondo loro si cela dietro ogni mito – anche dietro alle icone di sinistra dunque, con buona pace di Iosif Stalin – insomma alla gaitudine mondialista. Anche in questo caso, come nel precedente, ritorna l’imposizione di uno stravolgimento della realtà a favore di un’ideologia totalizzante che vuole dominare ogni altro pensiero.
Perciò: viva Zapata gender, viva la revolución ma vegana, mi raccomando.
Aggiornato il 16 dicembre 2019 alle ore 10:01