Alla fine è una questione di corna se la discussione sulle varietà di peperone da usare nel brodetto alla vastese è ancora aperta.
Lu vrudàtt vuastarèule, come si chiama in dialetto il piatto che rappresenta l’identità gastronomica dell’Abruzzo, c’è chi lo prepara con la varietà “cornë de cràpë” rossa di San Salvo (a fette verticali) e chi preferisce la varietà verde, meno dolce e asprigna rispetto al rosso, ma con una quantità di capsicina maggiore che sì, se da un lato li rende un po’ più pesanti da digerire, dall’altra ne preferisce l’uso nelle diete dimagranti, per il basso contenuto calorico.
Fatto sta che è dovuta intervenire l’Accademia Italiana della Cucina a far chiarezza: “Il Consiglio di Presidenza – si legge in una nota degli accademici vastesi – dopo aver valutato la documentazione inviata e la liberatoria dell’Accademico vastese Pino Jubatti, autore del disciplinare del ‘Brodetto alla Vastese’, ha approvato la proposta della delegazione di Vasto di deposito e registrazione” della sua preparazione.
In concreto? Il brodetto alla vastese è entrato nel patrimonio gastronomico italiano. Merito della storia marinara e contadina di questo territorio incantevole che un tempo vedeva il contadino-pescatore preparare questo piatto direttamente sulla barca, e che oggi vanta il marchio di qualità collettiva (Certificato dalla Camera di Commercio di Chieti Pescara) a rendere merito a un colpo di genio avuto dalla moglie di un pescatore. Si torna indietro nel tempo, attorno al 1878, quando la donna di casa diede un tocco di colore all’intingolo pallido con dei pomodori detti “mezzi tempi” (costoluta toscana), entrati a gamba tesa negli orti abruzzesi. Ma soprattutto usati come merce di scambio tra il paniere di pesce del pescatore e l’ortolano. Quella pennellata rosa, del medesimo tono di tutte le squisitezze della vita, sorprese i commensali. E sorprende ancora oggi i buongustai che, almeno fino a febbraio, potranno assaporare il miglior brodetto alla vastese d’Italia che porta la firma dello chef Matteo Crisanti, della storica trattoria “Zia Albina”.
È lui il vincitore della finale nazionale del Festival del Brodetto dell’Adriatico consumata al ristorante “Al Vecchio Teatro” di Ortona (Chieti). Lui, nel tegame di terracotta (la “tijelle” di coccio) mette dai sette ai dieci tipi di pesce, iniziando con le varietà più resistenti (cicala, gallinella, piccola seppia), proseguendo con la tracina, lo scorfano e la razzetta, concludendo l’esecuzione (guai a sovrapporre tutti i pesci insieme!) con triglia, merluzzo e sogliola, lasciando a vongole e cozze il compito di concludere l’opera.
“Ma prima si prepara la base, a freddo, con acqua, olio di oliva, peperone tagliato a lische, prezzemolo sminuzzato, aglio affettato e sale. Su questo ‘letto’, si adagiano i pomodori spezzettati per poi attendere, solo dopo il bollore, l’entrata in scena del pescato”, spiega Claudio Ucci, direttore di AbruzzoTravelling. Gli altri ingredienti “di base” provengono dalle stesse colline che a febbraio saluteranno lo chef diretto in Australia, per portare la tradizione abruzzese.
Se da un lato dispiace lo chef abbia pronte già le valige per sfidare il mondo, dall’altro è un vanto esportare un’eccellenza come Crisanti. Tanto ci pensa il disciplinare a tutelare la qualità a portata anche di altre trattorie di Vasto. Dato per certo che “Zia Albina” è lì dov’è ora dal 1907 e ci rimarrà ancora, ci sarà un altro chef a preparare le pietanze, avendo anche cura di far roteare il tegame afferrandolo per i manici per mescolare il brodetto senza usare forchetta e cucchiaio, come prescritti sempre nel disciplinare del brodetto.
Aggiornato il 11 dicembre 2019 alle ore 17:58