Cibo: nella Panarda, 50 sfumature d’Abruzzo

50 sfumature d’Abruzzo. Almeno, ma se ne possono aggiungere anche altre. Nella Panarda consumata al Castello Chiola, dimora storica che domina il delizioso borgo di Loreto Aprutino (Pescara), c’è tutto un patrimonio da scoprire, rigorosamente a portata di palato. Per chi non la conosce, metta in conto si tratta della rievocazione del più alto conviviale abruzzese: 50 portate tra antipasti, brodi di gallina, pasticci, timballi, carni arrosto, verdure, formaggi, salumi, frutta e dolci.

Una vera e propria orgia alimentare creata con una materia prima di primissima scelta che per fortuna è stata preservata prima dall’isolamento, poi da parchi e aree protette, e oggi da un turismo sostenibile. Ma qui, dove la terra di confine può apparire ruvida, proprio qui, dove talvolta i piedi tremano, nel cuore di uno dei 700 castelli, rarità assoluta per gli storici che hanno trovato un alleato come il National Geographic promotore della famosa Rocca Calascio tra i 15 castelli più belli al mondo, c’è una sentinella a fare da testimone a un tour gastronomico che già al debutto, mantiene una promessa: non lasciarvi a bocca asciutta! Preparatevi a un percorso gastronomico di 4 ore, ma la scoperta dei sapori tipici che farete è pari al patrimonio umano che gli abruzzesi sanno donare: da solo vale più di un biglietto di sola andata. La destinazione? Non c’è. Siete già arrivati.

Fate un bel respiro e affacciatevi dal Balcone d’Abruzzo, com’è chiamata la terrazza del Castello Chiola, perché da lì si vede quasi tutta la regione, perfino il Gran Sasso in lontananza. Sotto il suo sguardo attendo, accomodatevi pure. Guai a scegliere chi a tavola occuperà i posti accanto al vostro. Davanti a voi non c’è nessuno. Soltanto posate, un piatto, due bicchieri solamente per acqua e vino essendo il pane tra gli assenti “giustificati” al convivio. I vicini a tavola? Li sceglie la sorte. Dentro a un sacchetto, tessere numerate miscelano parentele a sconosciuti, facendo nascere nuove amicizie. Tanto la serata è lunga. Dunque non lasciatevi prendere dall’idea di intravedere in sala il fantasma di Sharan. La bella creola che, secondo la leggenda, si gettò dalla torre più alta del maniero per sfuggire alle voglie del conte Silveri, nei primi anni del Settecento, si aggira solo al terzo piano del Castello e tra l’altro pare si annunci con sospiri di piacere. Di altra natura sono invece i gemiti che fa nascere spontanei la Panarda, anticipata durante l’Abruzzo Food Experience guidato dalla Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura Chieti Pescara. In linea con la tradizione locale, la Panarda è un’esaltazione del cibo e delle tradizioni che celebra la fatica dell’uomo, glorifica valori anche non cristiani e onora Sant’Antonio Abate, patrono degli animali da cortile. Solo che all’alimentazione in voga fino ai primi del Novecento, fatta di legumi, granoturco, frumento, verdure e pasta fatta in casa, è stata aggiunta la variante della carne, per lo più pollo e maiale. A prescindere dall’etimologia incerta che fa derivare la parola dal matrimonio a tavola del pane con il lardo, sta di fatto, comunque, che la Panarda consisteva un tempo e consiste dal 28 novembre, in un pantagruelico banchetto di cibi considerati rari e preziosi. Prendendo le distanze dalla ricorrenza del 17 gennaio in funzione devozionale del Santo Antonio Abate, così come dalla voglia di allontanare la miseria dalla tavola delle famiglie più povere attraverso l’offerta di questo banchetto da parte dei ceti più facoltosi, c’è di bello che l’annata si presenta più che florida nel guardare il menù.

Dalla scapece alla vastese (pesce) al crostino alla chietina (che di diverso dagli abruzzesi in genere è passato nell’uovo e poi fritto), passando per li piparule e ove (frittata con verdure), la frittata di cipolle di Fara Filiorum Petri dove la piattona (cipolla vianca) ha forma piatta, colore bianco e sapore dolce e aromatico, la fracchiata (polenta povera tipica del Gran Sasso), è solo dopo la galantina di pollo con i sottaceti (ossia gelatina di pollo) che il banchetto subisce un primo giro di boa. Arriva la pausa digestiva di 15 minuti e poi ricomincia l’abbuffata, con il diavoletto (salsicce di carne di suino), la ventricina del vastese (insaccato) seguito dal crostino di ventricina teramana, fino ad assaporare il raviolo di ricotta di pecora, tallonato da lu rentrocele alla lancianese (una pasta fata in casa) che comunque segna solo il numero trenta tra le portate previste che ovviamente prevedono coniglio farcito alla chietina, lu ciffe e ciaffe, la pallotta cace e ova e le foje stracinite (cavolo verza) e ancora e ancora. Ricordate sempre che a tavola non c’è pane. Ma l’acqua, un goccio ogni tanto è ammessa. Eppure il tempo scorre. A scandirlo c’è il “maestro di Panarda” (per noi era Claudio Ucci direttore Consorzio Abruzzo Travelling) a fare la regia dell’evento. È lui che presenta le pietanze annunciate da un colpo secco di tamburo. Ed è lui che ha scelto il momento giusto per far entrare in scena il Gruppo Orchestra Popolare del Saltarello diretta da Danilo Di Paolonicola.

Loro, affiatati e divertiti, ballano in cerchio, in coppia, in file contrapposte, a croce e in qualsiasi direzione. Sempre loro cantano e ritmano la serata che alterna pietanze a danze, canzoni e brindisi improvvisati, dove a improvvisare potresti essere proprio tu che stai leggendo questo articolo. Perché a scegliere chi deve alzare i calici e dare il beneaugurante augurio ai presenti, è sempre un componente dell’orchestra del Saltarello. Suona l’organetto fino a quando, come una mannaia, la nota musicale si interrompe dietro alla sedia del prescelto che deve inventare un pensiero per i presenti al banchetto, alzando in alto il calice pieno di vino. Ma non finisce qui: attenzione anche al “guardiano di Panarda”. Non ha il fucile ma è armato di mattarello e controlla che tutti mangino tutto, con la frase minacciosa “magne”! Ovviamente è uno scherzo, ma va da sé che i piatti tornano bianchi in cucina. Ah dimenticavo: a firmare il menù e una brigata di 14 persone, c’è Vito Pastore, trentacinque anni, chef executive dell’Antico Torchio, il ristorante a la carte di Castello Chiola, struttura diretta da Leonardo Chiavaroli. Di mamma originaria di Guardiagrele (Chieti) e papà, primario in ortopedia, sempre in giro per lavoro, Vito, è nato e cresciuto ad Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari, ma è a Loreto Aprutino che trasforma la cucina povera in gourmet. Perché la Panarda è solo su ordinazione (130 euro circa).

Aggiornato il 09 dicembre 2019 alle ore 13:14