Presso la Galleria d’Arte “La Tartaruga” di via Sistina 85/A espone fino al 26 ottobre il pittore veronese di adozione capitolina Germano Paolini, specialista in paesaggi da natura morta.
Pitture che provengono da un Io sommerso che non intende dichiararsi né apparire, come quello nascosto nell’intimo di “Campi gialli” e di “Colline a Saturnia”. Ampie aree di colore formano rilievi e depressioni in cui si distendono campi e coltivi reali, e i giochi ricurvi collinari sono fattori e generatori essi stessi del mosaico di colori. Campi larghi di colore, dove gli alberi sono macchie verticali casuali come la loro disposizione sul terreno, sistemati, radicati senza demos: spontanei come arbusti diritti e filiformi. Cieli densissimi eppure appena indicati: tutto passa dalla terra al cielo con una genuinità ingenua per cui si chiede all’Osservatore non un pensiero, ma una visione delle cose ferma e cristallizzata dalla semplice intuizione. Da terreni di ocra ai bellissimi verdi ricurvi, ora foncé ora pronti a sfidare le sfumature lacustri del pastello, emerge un coinvolgimento e un ringraziamento possente all’arte della Natura. E poi la riflessione cupa dell’Ulisse naufrago (come in “Mareggiata”; “Spiaggia a Castiglione”; “Spiaggia”) ospite di spiagge amare, con l’onda che genera l’andante solenne e molto mosso della sua sinfonia eterna.
La spuma cavalcante disegna altezze a spasso con i venti, restando serva della gravità, preda delle direzioni continuamente variabili che le correnti stabiliscono nel loro mondo casuale, dove alcunché è prevedibile. Acqua, cieli ora appena velati di un rosa antico sbiadito, ora costruito istante per istante da nuvole scalcianti, amanti del caos che tutto disfa e compone nella ruota sempre troppo rapida degli attimi del tempo che passa. Tante spiagge non antropizzate dove l’unico segno di vita mineralizzata è il ligneo inerte delle scorie portate a riva dalle correnti, rami rinsecchiti eradicati da chissà dove, materie senza occhi che tacciono sulla propria origine. Da dove vengo? Chi fui? Nulla. Solo una pittura silenziosa che spia da una fessura temporale raccontando un mondo simbolico incontaminato con i suoi marroni, i grigi e i bianchi della vecchiaia e dell’usura, che fanno di quei resti altrettanti caduti irreali di un gigantesco cimitero ligneo, ritraendo per la memoria senza tempo rami e arbusti privi di dedica e di nome. Note, soltanto note, che non emettono suoni ma, solo a guardarle, generano idee di sindoni di pura corteccia, mescolandosi, annodandosi, stratificando rami gli uni sugli altri, come si farebbe con le spoglie sterminate e insepolte di un campo di concentramento.
Poi, però, arrivano i paesaggi antropizzati (“La casa sulla spiaggia”; “Case sulla collina”) con case bianchissime, basse e strette che emergono dalle dune di sabbia come scogli disegnati da un architetto ingenuo, di tradizione contadina, o che giacciono sul colmo collinare innalzate da una misteriosa forza centrifuga, materia espulsa e riprogettata partendo dalla terra rocciosa e argillosa che l’ha generata. Tutto intorno S.M. il Silenzio, riposo eterno degli elementi privi di Logos. Come quel riquadro vivisezionato di un grumo di arbusti (“Sulla duna”) presi nell’atto misterioso di scomporre e digerire la massa di sabbia sottostante e circostante per nutrire e manutenere i suoi Verdi, così tranquillizzanti rispetto al tempo ostile della pesca insidiosa al di là della cornice. E se il grano si fa della sostanza liquida dell’onda (“Campo giallo con temporale”) sotto un cielo plumbeo che anticipa ancora la pioggia, tutto allora si riposa inquieto, come la natura umana, mai doma nella sua eterna curiosità!
Aggiornato il 23 ottobre 2019 alle ore 12:04