La Famiglia? Un soggetto-oggetto sempre molto complicato da descrivere nelle sue dimensioni multivariate, in cui esterno e interno si compenetrano come lo Yin e lo Yang.
Un tentativo esemplare di restituire parzialmente questo quadro complesso è rappresentato dal film biografico della regista Lisa Azuelos (figlia della cantante francese Marie Laforêt) “Selfie in famiglia”, in uscita il 19 settembre, interpretato da Sandrine Kiberlain, Thaïs Alessandrin (figlia della regista), Victor Belmondo, Mickaël Lumière, Camille Claris, con testi della stessa Azuelos. Qual è lo stato d’animo di una madre divorziata, ancora giovanile e con un’immensa voglia e gioia di vivere la sua seconda metà della vita affettiva con la stessa intensità della prima? Proprio lei che deve fronteggiare da sola con il suo lavoro l’onere di un affido condiviso; un padre seriamente malato; un ex marito molto lontano da casa, il tutto quando Jade, la figlia minore diciassettenne, sulle soglie della maturità liceale, sta per spiccare il volo verso il Canada (evento effettivamente accaduto alla Azuelos che, come la finta madre del film, ha filmato sul telefonino lunghi periodi di vita in comune con sua figlia Thaïs)?
Non lo si direbbe, ma la storia raccontata con una sapienza al femminile assolutamente peculiare è una sorta di scultura del Laocoonte, un unico grumo affettivo cioè con quattro anime (madre, una figlia più grandicella, un ragazzino e una bambina più piccola) legate da un tessuto connettivo assoluto, che riesce a far transitare quel rapporto placentare tra madre e figlio in qualcosa di maturato, compiuto, al tempo separato e unito indissolubilmente. Denso di feedback, in cui il trittico di vent’anni prima, ai tempi dell’infanzia, non si separa in realtà mai passando dai giocattoli disseminati con la solita densità un po’ folle del disordine montessoriano a qualcosa di sempre più evoluto, moderno e intricato, fatto di musica techno, un po’ di sballo, serate con le amiche della madre, in cui si parla di sesso, di social pruriginosi, di uomini e di mondo al femminile, ad altre fatte di sballo, discoteche, di amori giovanili che esplodono come fuochi d’artificio, incontenibili e imprevedibili, negli ambienti adolescenziali come in quelli più maturi del fratello maggiore. La vita di Héloïse, la madre, assomiglia a un concerto di percussioni, in cui la pelle dei tamburi e le mazze delle cose incombenti rullano tutto il santo giorno.
Ed è tutto un guardarsi negli occhi, tra madre e figli. Con spazi silenziosi e densi di solitudine assoluta, quando l’adulto fa i conti tra se di una vita che passa sempre troppo in fretta; delle cose sempre in aumento e mai in discesa che occorre seguire, curare e amare perché l’essere madre e donna non è affatto separativo dall’uno e dall’altro concetto. Si porta un amante dove si può, persino trascinandolo nel soggiorno di casa ingombro di giochi ancora da sistemare, con rumori fragorosi degli incespichi che fanno sfumare e fuggire lontano il momento dell’intimità e della sensualità. Perché, poi, gli amanti si perdono sempre quando si hanno tre figli da crescere e le loro esigenze anziché diminuire aumentano di intensità, perché le domande e le risposte sono sempre più complesse: un aspetto, un risvolto del problema, di un volto, ne chiamano altri, vi si collegano come tanti serpentelli, fino ad avvolgerne l’interpretazione in una tela fitta di dubbi, senza soluzioni prêt-à-porter da allungare al tuo Prossimo come si farebbe dietro un banco degli attrezzi.
Vivere è soffrire, sognare, sbagliare. Ma quanto si sbaglia davvero nei ruoli rispettivi di genitori e figli. Perché, poi, l’apprendimento vero è per approssimazioni successive: due passi indietro e uno avanti, sempre cambiando qualcosa nelle direzioni frontali e a ritroso. E, poi, ci sono quegli abbracci struggenti nel letto tra madre e figlia minore, dove l’arte consolatoria è prerogativa dell’una quanto dell’altra. Insomma: un film sulla vita vera, dove tutti patiscono e gioiscono allo stesso tempo.
Aggiornato il 19 settembre 2019 alle ore 10:29