“Americani”: a teatro  il capitalismo malato

Siamo tutti “Americani”? Sì e no. Ma il mondo globalizzato di oggi lo è: nasce dal capitalismo rampante e termina con la filosofia folle del “denaro che fabbrica altro denaro”. Questa è la lotteria di Wall Street e dei suoi derivati, che alimentano e fanno esplodere le famose “bolle”. L’ultima ce la siamo trovata dinnanzi a noi nel 2008 e i suoi effetti sono stati a cascata, praticamente un disastro che non si consuma nel tempo.

Questo e non altro sembra profeticamente dirci, per l’appunto, l’opera teatrale di David Mamet “Americani”, che va in scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 30 ottobre. Perché il capitalismo e la sua speculazione immobiliare delle aree fabbricabili sono fiabe avvolte in un libro velenoso dei sogni, dove le sue vittime inseguono il mito del facile arricchimento. Compri oggi uno o più lotti ad una certa cifra e li ritrovi raddoppiati di valore di qui a pochi anni. Un tocco da Re Mida, in pratica. Solo che quei terreni tanto redditizi non sono, altrimenti i capitalisti che li hanno acquistati li venderebbero in proprio. Quindi, per moltiplicarne artificialmente il valore, vanno individuati i “gonzi” che li acquistino, i tipi da abbindolare facilmente da abili venditori: gli immobiliaristi del porta-a-porta; i cacciatori di anime ingenue, esperti come lupi di mare nel braccare le prede, con tecniche consolidate nei decenni. Il loro tiranno è rappresentato dalle curve di vendita e dai premi di produzione associati. Un numero sufficiente di allocchi che acquistano, e si è superato il mese, l’anno. Loro sono Daniele Sonnino, Riccardo Roma, Giorgio Arnone, Giacomo Mossa, impersonati, rispettivamente, dagli attori Sergio Rubini (che è altresì il regista di questa bella versione italiana, che ha molto brillantemente italianizzato la location dei lotti); Francesco Montanari; Roberto Ciufoli; Gianluca Gobbi.

Ma non sono tutti uguali. Daniele è oberato di debiti, con problemi in famiglia che non interessano proprio a nessuno. Vende poco e male. Uno dei primi della lista ad essere messo fuori. Per questo, la prima scena lo vede supplicare il responsabile delle vendite, Tommaso Mariani, per avere delle schede “buone”, in cui sono tracciati i profili di potenziali clienti con adeguate disponibilità economiche. Quelli che stanno nella lista “A”, per intenderci. A Daniele, però, sono stati affidati soltanto alcune schede della lista “B”, aspiranti ricchi ma di per sé squattrinati. O cinesi: quelli che non sottoscrivono mai nessun contratto di acquisto e ti fanno parlare per ore.

Sì, Mariani, per l’appunto. Perché i padroni hanno bisogno di persone fidate per gestire il branco di lupi degli addetti alle vendite. Cinici e spietati come Riccardo Roma, con la curva all’insù che sale sempre e l’autostima alle stelle. Poi Arnone, così debole e depresso: il secondo a doversene andare per scarso rendimento, con ogni probabilità. Odia i padroni, e se la fa volentieri con Giacomo Mossa, con poca voglia di lavorare, moltissime rivendicazioni e, soprattutto, disposto a tutto per denaro. Fino sobillare Arnone affinché rubi a Mariani la lista “A”. Qualcuno lo farà, certo. Al secondo tempo si vede un ufficio messo sottosopra, con le carte sparse dappertutto. E la lista “A”, naturalmente, scomparsa, rubata. Da chi? Lo scoprirà l’arrogante ispettore Balducci (Federico Perrotta)? Non è questa la cosa importante, ascoltando il sussurro di Mamet: è un discorso, il suo, sulla lotta per la vita di un capitalismo malato, privo di slanci e di generosità, dove non si può essere deboli ma solo predatori.

Tutti, falliscono tutti. Un gioco a perdere. Dove i vincitori sono solo apparenti e durano lo spazio di un mattino. Mentre il “Denaro” è eterno. Non si ferma mai. Basta che riesca sempre a fabbricare i servi giusti, come Mariani e Roma. Recitato benissimo. Intenso e convincente.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:32