“Fausto e gli Sciacalli”, risate al Ghione

Il viaggio è il sogno, o viceversa? Sembrerà strano, ma entrambe le direzioni della frase sono ammesse e giustificate nello spettacolo “Fausto e gli Sciacalli”, di Gianni Clementi per la regia di Nicola Pistoia e Paolo Triestino, andato in scena di recente al Teatro Ghione. Anche se è vero che si ride senza freni dall’inizio alla fine, a guardar bene, in realtà, si ha la sgradevole impressione di procedere - rivestiti di una tuta d’amianto - ai bordi del cratere del vulcano attivo dell’attuale crisi sociale e esistenziale. E, calcando le ceneri roventi, si avverte tutt’intorno il brontolio cupo della pietra fusa e roteante, che riempie di brividi il terreno con le sue microscosse sismiche. L’inganno è dato da un dialetto romanesco sempre urlato e mai declinato nella sua antica saggezza, fino a provocare un’inavvertita implosione dei sentimenti, mentre con i brontolii sale la pressione fino all’eruzione finale.

Tutti i personaggi (interpretati da un’ottima compagnia di attori) sono carichi di energia vitale che, però, ha due facce diametralmente opposte. La prima è rappresentata dalla depressione dilagante che tiene strette nel laccio dell’impiccato due coppie mature, sconfitte dal mal di vivere, malgrado il fallace iperattivismo di Fausto (il protagonista) - controbilanciato da una moglie (Ottavia) depressa, insoddisfatta e rassegnata - e di Angela, fallita soubrette in disarmo ma ancora molto attraente ed esuberante, consorte di Gennaro, un napoletanissimo vigile urbano che (non) sta in piedi imbottito di psicofarmaci. La prima coppia ha un figlio disadattato, rapper fallito e spinellato, che litiga furiosamente con il padre Fausto, mentre gli altri due sono senza figli e, nella sostanza, senza futuro. Fausto si adatta a vendere oggetti per la casa Made in China nei mercatini rionali, mentre Ottavia si arrangia come parrucchiera in nero, lavorando a casa o recandosi dalle rare clienti del vicinato.

Unica nota di colore: l’anziano padre convivente di Fausto, indementito e ipnotizzato dalla tivù, perennemente sintonizzato sui canali delle televendite che lo convincono a comprare di tutto, fuori dal controllo dei suoi congiunti, troppo occupati ad afferrare disperatamente la coda di una vita che fugge via rapidamente e cinicamente, perdendo per la strada i più deboli. Sicché, Fausto e Ottavia sono costretti ad un tour de force quotidiano per spedire raccomandate di recesso dagli spericolati acquisti del nonno, cadenzati da telefonate di grande comicità per arginare il ritorno immancabile dei televenditori. Poi arriva “Lui”, l’alieno Elmore, figura esotica che cattura la simpatia del pubblico con il suo idioma anglo-italiano, ex batterista della band degli Sciacalli, di cui Fausto e Gennaro erano i due provetti chitarristi e che tanto successo avevano avuto negli anni Settanta con una loro canzone, intitolata “Annalisa” (effettivamente composta per la compagnia teatrale dai due “Pooh” Stefano D’Orazio e Roby Facchinetti).

Ed Elmore, come un elfo della foresta, vincerà la loro depressione infondendo nei quattro il sogno della ricostituzione della band, con il miraggio dell’ingaggio da parte di un suo amico produttore per un tour nostalgico e vintage nelle città italiane. Grazie ad Elmore, Gennaro si libera del suo insopportabile impiego pubblico e lui e Fausto tornano a desiderare e a fare l’amore appassionatamente con le proprie mogli come se fossero appena sposati. Ma certe creature immaginifiche, si sa, restano dispettose e capricciose. E anche stavolta l’elfo Elmore non farà eccezione!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:33