Sabella racconta la “Capitale infetta”

Una volta qualcuno disse: “Capitale corrotta = Nazione infetta”. Semplifica il tutto il libro dal titolo “Capitale infetta” – Si può liberare Roma da mafie e corruzione? (Edizioni Rizzoli) scritto dal magistrato Alfonso Sabella (con Giampiero Calapà), ex Pm di Palermo e grande cacciatore di teste mafiose illustri e ultimo assessore alla Legalità e Trasparenza del Comune di Roma, nominato “in limine mortis” dal sindaco Ignazio Marino nella poltrona più scomoda del Campidoglio, vera e propria gogna mediatico-amministrativa per il Lancillotto di turno.

Il libro di Sabella è un’opera di testimonianza alla “Gomorra” di Saviano ma assai più colta e temprata dal punto di vista dell’ottima conoscenza delle procedure amministrative e dei meccanismi burocratici. A tutto beneficio di chi, come chi scrive, ha vissuto per quarant’anni nelle sfere dell’alta burocrazia dello Stato. Ed è una triste, martellante e nauseante cavalcata tra i miasmi della politica romana e nazionale, in cui nessun distinguo è ormai più possibile. Il libro è scritto di getto, sull’onda emotiva dei fatti accaduti poco tempo fa. Narra di tutto ciò che i romani e gli italiani sanno benissimo ma fingono di non sapere.

Sabella ci descrive un sistema corruttivo, mafioso, omertoso e colpevolmente omissivo che fa di un servitore pubblico un bieco esecutore materiale di interessi innominabili, riferiti sempre e comunque a fortune e imprese private, che sopravvivono solo grazie alla manna dei flussi di finanza pubblica, con particolare riferimento agli appalti di servizi, di opere e di beni. Simbolo di tutto il libro è l’infame “Muro di Ostia”. Quello del tutto abusivo, costruito dai concessionari degli arenili ostiensi in violazione e spregio di qualsiasi convenzione, in cui la rapina del territorio si fa lacrime e sangue: quelle inferte e causate da un sistema mafioso capillare e onnipresente che ha fatto delle spiagge di tutti una miniera d’oro a proprio uso e consumo. Il “Muro di Ostia” è quello che separa il romano in gita dal suo mare, nascondendolo ai suoi occhi in modo fraudolento e del tutto illegale per una linea ininterrotta di parecchie miglia.

Il libro va letto e bevuto come un calice amaro. Perché insopportabile e intollerabile è lo stato di demenza e putrescenza della macchina pubblica amministrativa romana. Perché il “non-fare”, il “frammentare” in mille rivoli è la chiave di volta della collusione fatta sistema. Si fanno cento gare per acquistare cento bicchieri, mentre ne basterebbe una sola per acquistarne cento. Tutte le vie di fuga sono buone per procedere agli affidamenti diretti, spezzettando gli appalti in modo che scendano sotto soglia e non si vada giammai alle temutissime gare europee. Forse sarà per questo che i capi dipartimento del Comune non sanno nemmeno che una gara di questo tipo vada pubblicata sulla Gazzetta europea e su quella Ufficiale italiana. Del codice degli appalti i funzionari amministrativi di Roma conoscono soltanto la “somma urgenza”: il non- fare, il rinviare sempre e comunque le cose da fare creano di per sé l’emergenza. E così i responsabili politici, stretti tra Antigone e Creonte, scelgono sempre la prima. Cioè, si rassegnano al male della corruzione (l’affidamento diretto, i folli ribassi d’asta che ti costringono, alla fine, a pagare somme di molte volte superiori a quelle guadagnate con i ribassi), piuttosto che fare il bene della paralisi di tutte le attività socialmente rilevanti che fanno capo ai principali servizi pubblici locali. Sabella racconta la sua disperata lotta contro il tempo per introdurre atti di fondamentale importanza per le condotte di gara e per la trasparenza. Ci mostra e fa nomi e cognomi di Bruto e dei suoi complici, che stanno nell’ombra, pronti a pugnalare Cesare nascondendo il loro volto di assassini sotto il mantello. Ostia, poi, la fucina delle mafie, anche e soprattutto etniche, come si è visto in un recente funerale monstre. Un litorale, una volta tra i più belli del mondo, sbranato, fatto a pezzi, inondato di ignobile cemento e di migliaia di metri cubi di opere precarie, baracchini a perdere senza anima né rispetto per il paesaggio, edificati alla meglio e alla rinfusa, nel più assoluto arbitrio e abuso, per spremere quanti più denari possibile ai romani assetati di vacanze e di frescura.

E poi l’impotenza, l’impossibilità quasi assoluta di mondare questo mondo infetto. Perché, come disse la Arendt, la “Banalità del Male” fa sì che i cittadini, tutti i cittadini, siano complici, si rassegnino a questo stato di cose, dovendo quotidianamente sopravvivere a scioperi, abusi e vessazioni. Costretti, cioè, ad alimentare i mille rivoli della collusione/corruzione ungendo le ruote di una Pubblica amministrazione fatta apposta per impedire l’esercizio anche dei più semplici diritti, in cui il controllo del territorio è, di fatto, inesistente mentre pezzi di criminalità di ogni genere lucrano in ogni modo sui servizi sociali e sulle esigenze abitative dei meno abbienti.

Un drammatico grido di dolore, questo di Alfonso Sabella, da tenere bene a mente per provare, dico solo “provare”, a porre rimedio ai gravissimi, mortali peccati di Roma Capitale.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:22