Il ponte delle spie:  Spielberg ispirato

Quando si alza il... Muro. Allora, è come la peggior tempesta, che produce molti più danni morali e materiali di un ciclone. Vedi oggi quel che accade con l’esodo siriano. Tutto ciò che prima era unito, viene separato da quel sudario di pietra spessa. Chi osa scavalcarlo perde ogni sembiante umano e diviene un mero bersaglio mobile nel mirino delle guardie di frontiera, legittimate a uccidere i propri connazionali! Nient’altro che carne da cannone. E quella prigionia a cielo aperto, dove c’è solo un “di là” degno di essere vissuto, ha avuto la durata di più generazioni, sotto il controllo spietato delle onnipresenti ombre della Stasi - come già denunciato ne “Le vite degli altri” - in cui la libertà vera ce l’avevano solo le spie! Così, il bellissimo racconto di Steven Spielberg ha un prologo in America, ma il centro e la coda ben saldi nel cuore tra le due Berlino, colte nell’attimo in cui ha inizio la Guerra Fredda, appena oltre la prima metà degli anni Cinquanta. Le scene iniziali riguardano un concitato inseguimento e, infine, la cattura da parte dell’Fbi di una spia sovietica di rango elevato, il colonnello del Kgb Rudolf Abel (uno straordinario Mark Rylance).

A difenderlo viene chiamato l’avvocato James Donovan (interpretato da un magistrale Tom Hanks) scelto con una procedura ultra garantista, per essere un galantuomo di ferrei principi e “tutto d’un pezzo”, come gli verrà riconosciuto dal suo stesso cliente, ammirato e stupito da tanta levatura morale e giuridica. Donovan viene prescelto a patrocinare il processo alla spia, in base alla designazione dell’Ordine Nazionale degli Avvocati. L’intento è chiaro: rendere assolutamente inattaccabile la decisione giudiziaria, qualunque fosse stato l’esito del processo. Ma che cosa accade a quell’avvocato se la propaganda maccartista ha fatto per anni proseliti per la condanna a morte dei comunisti nemici della patria, che si fossero macchiati di delitti contro lo Stato? Ovvio: Abel, lui soprattutto, doveva essere condannato a morte. Questo chiedeva a gran voce la stragrande maggioranza dei cittadini americani, e i quotidiani nazionali non facevano altro che nutrire ogni giorno di più questi sentimenti di vendetta giustizialista. Come nell’Urss di quei tempi, Donovan si trova a difendere, da quest’altra parte della barricata, un “nemico del popolo e della democrazia”. Arrivando perfino ad adire la Corte Suprema, nel tentativo (fallito) di far invalidare le prove utilizzate per condannare Abel a trent’anni di prigione.

Va da sé che un simile processo renda un inferno anche la vita privata di Donovan. Soprattutto quando con un ragionamento profetico l’avvocato, ricevuto dal giudice per un colloquio riservato nella sua abitazione privata, lo ammonisce a non assecondare la volontà popolare della condanna a morte della spia sovietica perché, forse, un giorno la si sarebbe potuta scambiare con un suo pari americano, catturato dai russi. La macchina da presa straordinaria di Spielberg costruisce con le immagini, oltre che con dialoghi profondi e impegnati (anche se semplici in apparenza), lo straordinario rapporto umano tra Donovan e Abel: loquace il primo, saggio e silenzioso il secondo che, nei momenti cruciali del dramma, alla domanda del suo avvocato: “Lei non è preoccupato?” risponde impeccabilmente e serenamente “Serve?”. A pochi mesi dalla condanna di Abel, i sovietici abbattono un aereo spia U-2 che volava clandestinamente sul loro territorio e catturano il tenente Powell dell’aviazione americana. Nel frattempo, i tedeschi dell’Est a caccia di visibilità internazionale imprigionano un giovane studente americano, Frederic Pryor, mentre cerca di attraversare il Muro assieme alla sua fidanzatina.

A sorpresa, la Cia decide che sia Donovan a condurre la trattativa segreta, senza che il Governo degli Stati Uniti ne riconosca ufficialmente il ruolo di mediatore. La cosa davvero straordinaria del film è costituita da quella navetta tra le due Germanie, al di là e al di qua del Muro, in cui l’avvocato darà una prova straordinaria delle sue doti e del suo fiuto eccezionale di mediatore, nel rapportarsi al responsabile del Kgb dell’Ambasciata sovietica a Berlino Est e al capo della Stasi tedesca. Perché i politici della Ddr avrebbero voluto avere la loro bella ribalta internazionale scambiando il solo Pryor con Abel, mentre lui, Donovan, e solo lui, tenterà la carta temeraria dello scambio di “uno per due”. E vi riuscirà in un finale mozzafiato, dove ancora una volta Spielberg fa emergere e giganteggiare il rapporto umano tra il russo e l’americano onesto, quando Abel dirà la parola chiave “Posso aspettare” e Donovan capirà, a scambio avvenuto, che l’onore che lui sapeva incontaminato di Abel verrà messo in discussione proprio dai suoi, una volta rientrato a Mosca. Un film assolutamente da non perdere!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34