La pittura di Tamburro

Come sta in salute la pittura italiana? Non male, ammirando le opere del molisano Antonio Tamburro, di cui alcuni quadri sono esposti alla 6° Senso Art Gallery di via dei Maroniti (a due passi da Fontana di Trevi). Al primo impatto con le sue recenti opere nasce del tutto spontanea la sensazione di trovarsi di fronte a un artista che usa il colore come si farebbe con gli oggetti che abbiano volume e spessore, per estrarne l’intima essenza fisica rimandata dal loro rivestirsi di colori. Questa sostanza radiante, in apparenza neutra e matematica, viene aspirata in dosi robuste da un pennello avido di novità, divenendo proposta combinatoria per un irraggiamento multiplo, multifocale e multi direzionale dell’osservatore. Lo scatenarsi dei colori opera su più piani sovrapposti, generando perturbazioni emotive di grande intensità e trascendenti i canoni prospettico-figurativi, malgrado le rare o molteplici figure muliebri (sempre eteree, rigide e “filanti” come esili manichini colorati) confinate, in generale, sullo sfondo.

La pittura di Tamburro, in effetti, si dedica all’essenza come chi osservi estaticamente dall’alto di una collina panoramica un profondo, articolato e sensuale paesaggio con rilievi, avvertendone la bellezza sconfinata. In “People and umbrellas” la pittura si fa tardo futurista con oggetti volumetrici scolpiti sul fondale dello scenario. Il piano frontale dell’osservatore è fortemente perturbato e lo sguardo subisce un forte movimento rotatorio a causa dell’esistenza di vortici cromatici in cui il disegno, il tratto e il contorno semplicemente scompaiono, attirati in una circuitazione fuori di senso, che si fa litote, per attenuare e addolcire colori stesi come selci di marmo, estratti dalla roccia viva e graffiati dalla violenza delle ruote a denti di diamante, che fanno filamenti della pietra.

Figure e oggetti sono attirati, agglutinati e inglobati dalla forza della corrente cromatica annichilandosi nelle spire di colori intensi, brillanti, espansi a vortice. L’essere antropomorfo si trasfonde in curve, sferze e semplici tasselli di colori vivi, spatolati per chiazze ampie come cunei di legno, conficcati l’uno nell’area spaziale dell’altro, per fare violenza a una giurisdizione della composizione che sfugge, modernamente, futuristicamente ai canoni dell’accademia. In “City”, invece, la composizione sembra sostenersi alla sinistra su di un costone roccioso di un bianco puro, striato di ampie pennellate di grigi circuitanti, con rare e frammentate gocce di rosso e giallo.

Quel marmo bianco fa da pietra angolare a una sorta di edificio fatto di piani sovrapposti e di volumi che vedono sfumare e confondersi la loro materia antropomorfa, la cui forma originale è solo parzialmente percepibile per “sfocalità” progressive in figure femminili sospinte verso il fondale. Ed è questo schiacciamento a dare la sensazione di una cortina figurativa (descritta dalle silhouette sullo sfondo) che fa da barriera al turbinio irrefrenabile dei colori originati dalla linea più bassa di appoggio dell’intera composizione, volto ad aggredire come forza irruenta e primitiva l’intera composizione.

In “RedLips” (nella foto), ancora una volta, la scelta compositiva è articolata per sovrimpressioni e sovrapposizioni, con un lato destro che vede cadere numeri e lettere come gocce di pioggia scomposte dal vento, mentre la figura femminile centrale appare, letteralmente, una materializzazione del parlato che si fa figura: rosso dal rosso, come le labbra che generano il vestito; il bianco pallidissimo del viso che partorisce il fondale del piano intermedio di identico colore, posto tra la narrazione principale il complemento di appoggio. Non c’è che dire: Antonio Tamburro è un artista che dovrebbe fare scuola!

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:09