Lina Sastri è la “Lupa”

Come si coniuga al femminile “Homo homini lupus”? La “Lupa”, ci risponde Giovanni Verga. Persino nel rapporto madre-figlia! Ma sarà proprio così? No, non è così. Perché anche quando si narra della “Donna- mantide” (colei, cioè, che “divora” il suo compagno dopo l’unico amplesso) nessuno è mai in grado di disgiungere, isolandone le sole qualità negative di... belva, l’universo intrecciato di femmina-madre-amante che ha una sua ciclicità profonda. Nella messa in scena e riduzione in dramma teatrale del racconto di Verga, la Lupa è interpretata dalla “divina” Lina Sastri, per la regia di Guglielmo Ferro. Lo spettacolo va in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 29 novembre. La riduzione teatrale voluta dal regista e lo squadernamento ambientale della scenografia oscurano parzialmente l’ombra felina di mangiauomini, che Verga ha costruito attorno alla Lupa. Da un lato, infatti, lo sfondo ha il giallo brillante e la consistenza granulare di un campo di grano in piena maturazione, che attende soltanto le braccia che lo falceranno, e dalla cui parete vegetale compatta e impenetrabile fuoriescono, di volta in volta, gli attori di scena.

Dall’altro, lo strapotere della protagonista è annullato, in pratica, dai rari dialoghi tra la Lupa e i suoi interlocutori, con parti cantate (bella la voce della Sastri!) da solista, sia musicale che scenica, riservate alla sola ‘gna Pina. Invece, l’aspetto corale è, a mio avviso, la cosa più interessante dello spettacolo. E, forse, restituisce meglio il substrato verghiano che non è ambientazione, contorno, ma sostanza socio-economica. Il primo quadro, infatti, si apre con l’anziana contadina seduta sulla sedia, alla quale si rivolgono con deferenza i giovani raccoglitori (ragazze e ragazzi) per ottenere la magra paga quotidiana, alla fine del loro duro lavoro. E lei, la sostituta del fattore, che ha fatto tutta la trafila da lavorante a fiduciaria del padrone per il controllo del lavoro dei salariati, valuta, soppesa e stabilisce il soldo che spetta a ciascuno di loro, osservandone con occhio esperto i risultati singoli della raccolta quotidiana. E la sua non è, come si potrebbe immaginare, una “Authoritas” arcigna, fondata su quel potere spocchioso e stupidamente dispotico di chi arriva ad avere un minimo di potere sugli altri.

No, il suo è un occhio lungo ma soffice che esercita un controllo quasi dolce dell’insieme: è lei a tenere ben salda la tradizione contadina, fatta di pettegolezzi, preghiere, sogni delle ragazze da maritare, doti e mediazioni da sensale, soprattutto quando interviene per mitigare l’ira del violento Nanni mentre picchia la moglie Maricchia (la figlia della Lupa, “gna Pina”) e la madre di lei. C’è molto più paese povero della Sicilia profonda che malanimo, in questa rappresentazione. Le ragioni della vergogna di Maricchia (ragazza per bene e benestante) non affiorano mai: il dialogo con la Lupa è teso, intriso dalla vergogna che tutti sanno dei troppi amanti di sua madre. Ovviamente, la risalita del diapason si ha nei momenti che preparano all’epilogo violento e guignolesco del dramma (Nanni uccide a colpi d’ascia la Lupa), quando ‘gna Pina rinuncia a tutti i suoi averi per darli in dote alla figlia, costretta a sposare controvoglia proprio il Nanni che è uno spiantato - ma con smisurate ambizioni - senza mezzi economici per permettersi una moglie da mantenere. La lite violenta tra madre e figlia ha come innesco lo “scandalo” che tutto il paese conosce e sottace. Ovvero, che Nanni è marito della giovane e amante della suocera convivente.

A nulla serve l’agognata depurazione dal peccato di incesto ed empietà, che Nanni crede di avere ottenuto attraverso la confessione, in modo da poter portare senza infamia lo stendardo della Madonna in testa alla processione, sempre incombente e mai celebrata. Sì, è vero: la Lupa lo bracca come farebbe con un cane da pastore, per masticarne i muscoli, la vigoria fisica, in modo che il sangue giovane dia nuova linfa alla sua bellezza non più così prorompente. Eppure, una spina velenosa nel fianco non basta a far dire all’uomo: “Non è colpa mia. Il veleno è venuto dall’esterno, fuori dal mio controllo”. Perché ciò non è mai vero. O almeno, non fino in fondo. Sarebbe bastato portare lontano moglie e figlio, per sottrarsi al morso accanito della Lupa. Ma non accade. E il dramma esce dalle mani sanguinanti di chi pace non ha saputo darsi e dare. Grande Verga, inseguito da un teatro che, però, non riesce mai ad avere il suo stesso passo.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:32