“Ivanov” all’Eliseo

Come far divertire con Čechov? Operazione non facile, quella sperimentata dal regista Filippo Dini nello spettacolo "Ivanov" -di cui è il protagonista- che va in scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 15 di novembre. Molto rumore per nulla? Difficile questione da dirimere. Forse, un eccesso di contemporaneità nel ridisegnare il carattere intimamente intenso e catastroficamente distruttivo di alcuni, fondamentali personaggi čechoviani. Da rivedere, a mio avviso -in quanto non essenziali-, le figure del servo handicappato e dell'anziana giocatrice sordomuta in carrozzella. Per il resto, la revisione di Dini mi sembrerebbe improntata, nei confronti dello spettatore, ad assicurare pedagogicamente a quest'ultimo un lenimento emotivo, al fine di placare i morsi di una Dea Depressione la cui funzione è quella di una falce oscillante in moto perpetuo, che recide teste e anime dai loro tronchi annegando il senso della vita in un nichilismo senza confini e ritorno.

E, in effetti, la Storia di quegli ultimi decenni del XIX sec. nasconde nel suo grembo la Grande Dama Nera, che si prepara -attraverso gli esangui bagliori delle guerre di potenza- a estinguere intere genealogie di nobili decaduti e il popolo minuto della Grande Madre Russia. E Čechov gioca in quest'opera le sue magiche antisimmetrie, costruendo con impareggiabile maestria linee contrapposte del senso della vita. Da un lato, due grandi famiglie. La prima di nobili terrieri decaduti. La seconda espressione di una nuova borghesia eiettata come lava solfurea da una morente divisione castale della Russia tardo imperiale.  Quest'ultimo, nuovo reperto gruppale è filigranato al suo interno da una asimmetria coniugale, in cui l'usuraio ipocrita e cinico è lei, la moglie Zinaida Savišna (Orietta Notari) che ha accanto un marito, Pavel Lebedev, sposato alla vodka e senza altro ruolo che quello di amico sincero e di padre disperato quanto affettuoso.

Caricata a molla, ma non di meno molto interessante, è l'interpretazione di Pavel che ne dà Gianluca Gobbi, inondando a tutto campo la scena con la sua voce perentoria e baritonale, unita a una sorprendente fisicità. L'altra, antisimmetrica, è quella del protagonista Ivanov corredato da una moglie gravemente trascurata (Sara Bertelà), malata di tisi senza speranza, assistita da un Conte zio (Nicola Pannelli) spiantato e privo di risorse. La terza famiglia di ebrei è solo evocata nei suoi termini degenerativi, incardinati nel ripudio della figlia, che ha rinunciato alla sua religione per sposare Ivanov, benché privata -per ritorsione- della sua dote. Su questo tessuto narrativo, si innesta un'altra coppia tragica, antisimmetrica (anche qui con innovazioni sceniche e linguistiche fortemente anticlassiche, per volontà del regista). La prima delle due figure è il medico curante L’vov Gavrila (Ivan Zerbinati) di Anna -di cui è segretamente e follemente innamorato-, affetto di un "talebanesimo" perbenista che pratica, senza rendersene conto, una denigrazione feroce e diffamatoria (nascondendosi dietro l'oscurante sipario delle missive anonime) a danno del possidente Ivanov, del tutto innocente e perbene. Čechov non ha dimenticato la lezione del "Malato immaginario" e fa dire dal conte zio peste e corna sulla categoria dei cerusici.

Invece Ivanov, il tragico protagonista, è soffocato progressivamente dall'acido corrosivo che tracima dalla sua anima e che lo fa progressivamente macerare in un malumore interiore, fino al compimento del gesto finale di auto annichilamento, al momento di risposarsi -dopo la morte di Anna- con Saša (Valeria Angelozzi), unica figlia del suo amico Pavel. L'altro elemento antisimmetrico è incardinato nella figura del giovane fattore avido e spregiudicato, che appare come un'orribile ragna dagli interessi gretti e materiali, che prosciuga la linfa vitale della sua vittima, Ivanov. Lui, come la maggioranza di quelli della sua risma -sembra voler denunciare Čechov-, sfruttano l'assoluta incapacità di tanti grandi proprietari terrieri in disfacimento, i quali non sanno dove stia di casa il lavoro e che non sono nemmeno in grado di trarre un reddito di sopravvivenza dalle loro immense proprietà. E attraverso il suo personaggio intrigante, sensale d'occasione e imbroglione intemerato (che riesce a trarre denaro e profitto indebito da cose apparentemente lecite) Čechov ricava il profilo profetico dello speculatore capitalista moderno.

Infine l'antisimmetria coniugata al femminile (compresa la superficiale ed esuberante Marfa Babakina, interpretata da Ilaria Falini) con a fattor comune l'amore eternamente malato per i malati terminali di "spleen", come Ivanov e lo zio conte, Šabel’skij. Sposare il dannato da sé e l'estraneo dagli altri e dal mondo, assecondando l'istinto di un messianesimo redentore che ogni donna sente di avere nel suo seno. Perché lei, e solo lei, è la salvezza del mondo.

Un'opera davvero monumentale, questa del grande drammaturgo russo, che lascia molti interrogativi in sospeso nello spettatore più smaliziato.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:32