Il “Prezzo” di Popolizio al Teatro Argentina

Un “Prezzo” stupendo, quello di Arthur Miller (in programmazione al Teatro Argentina di Roma fino all’8 novembre). Che ci fanno insieme due fratelli Victor, il poliziotto, e Walter, un famoso medico (rispettivamente, Massimo Popolizio ed Elia Schilton, semplicemente perfetti nella parte!), che non si vedono da quindici anni? E un rigattiere ebreo, Solomon (un delizioso Umberto Orsini), esperto nella compravendita di mobili usati è un usuraio, o un buon samaritano? E lei, la moglie di Victor, Esther (Alvia Reale, convincente ed emozionante), ridotta in briciole da una vita di stenti, da che parte starà, alla fine? All’origine, un fatto luttuoso: la morte di un padre-despota e la subentrata esigenza di sbarazzarsi dell’ingombrante mobilio di famiglia, ormai inservibile, dovendo essere abbattuto - di lì a breve - l’immobile relativo. Poco alla volta, i ricordi si scagliano tutt’intorno alla grande stanza, come schegge esplose da un grande cristallo in frantumi.

L’elsa di un vecchio fioretto emerge dallo scatolone e Victor si riscopre antico spadaccino, con troppi dolori articolari per stare correttamente ancora in piedi. Lui ed Esther sono una coppia assai stanca (lei annega la sua infelicità nell’alcool, tra l’altro) e hanno deciso di andare al cinema, dopo che avranno venduto la mobilia, frutto dell’eredità paterna. Di mezzo, però, c’è un vestito macchiato di lui da ritirare. Esther si allontana per recuperarlo in tintoria, lasciando solo Victor alle prese con un gagliardissimo ebreo novantenne: Solomon, per l’appunto. Lui che, facendo sfoggio della sua sapiente avarizia, inizia a svalutare in ogni modo quegli arredi di certo non lussuosi ma importanti, per spuntare un “prezzo” (il fulcro della pièce) il più possibile stracciato.

Strada facendo (e inciampando) il rigattiere avrà il suo bel colpo di fulmine per una vecchia arpa, con la cassa armonica guasta, come l’anima della madre di Victor, che lui stesso ricorda come impigliata a quelle corde tese, livida di rabbia e di rimpianto per una mancata carriera di artista, barattata con il benessere sociale di un marito mai amato, fortunato uomo d’affari che va in rovina a causa del crollo di Wal Street del 1929. All’arrivo a sorpresa del fratello lo scenario si anima come un coltello a serramanico: la lama che era nascosta nel manico ora brilla alla luce, avida di vendetta e di sangue appena distillato dalle ferite che entrambi i fratelli avevano credute rimarginate per dono del dio Kronos, il Signore del Tempo. E invece no. Volano i ricordi, come mille piccole croci che vanno a sdraiarsi sui tavoli, sugli armadi e comò, rendendo roventi le sedie su cui i due fratelli si appoggiano per guardarsi negli occhi, ora con furore, ora con pietà l’uno per l’altro.

Fino a scoprire verità inconfessabili, per volontà di Walter, che si ribella all’invidia e alle accuse di Victor di averlo abbandonato con un padre totalmente bisognoso di cure, ridotto dal fallimento in uno stato di pietosa indigenza: padre e figlio costretti a mettere in tavola gli scarti alimentari dei negozi di verdura, per sopravvivere. E Victor, costretto dal suo magro salario a sacrificare il benessere della propria famiglia, moglie e figli, da lui obbligati a vivere un una stanza in subaffitto pur di aiutare l’anziano padre. Genitore-vampiro, però - come si scoprirà man mano nel corso della violenta lite tra fratelli - che prosciuga con cattiveria la vita di Victor, pur di tenerlo schiavo del proprio insano bisogno di potere ed egoismo senza limiti. E Salomon che, finalmente, fissato quel benedetto prezzo vede messo a rischio il suo lucroso affare dalle rimostranze di Walter, che propone al fratello un lauto meccanismo per ricavare un bel po’ di reddito aggiuntivo, con una semplice donazione sgravata dalle tasse.

Bello, intenso e tutto da vedere, questo magistrale pezzo teatrale di Arthur Miller.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:23