“Il Bugiardo” in scena   al Teatro Quirino

Goldoni? Una maschera moderna. Di rara potenza espressiva. Evoca, traduce e rimanda, stavolta circuitando il suo ingegno attorno al centro antropologico del mondo: l’arte della menzogna. Di quella che nemmeno scherzando dice mai la verità. Al contrario dell’immortale Pulcinella. Qui, nell’opera “Il Bugiardo”, in scena al Teatro Quirino di Roma dal 13 ottobre al primo novembre, rivisitato in chiave moderna, sopravvivono del repertorio goldoniano Arlecchino e Brighella, ai quali dà voce il bravo Lorenzo Gleijeses. E loro sì che indossano la doppia veste di Caronte e Virgilio. Il primo, con il suo doloroso carico di menzogna e vanità, trasporta nella sua barca a pelo d’acqua il protagonista, Lelio Bisognosi (interpretato dal poliedrico ed eclettico Geppy Gleijeses, navigatore dialettale), figlio di Pantalone. Tutto accade perché “Dio acceca coloro che vuole perdere”: le maschere goldoniane sono sostanza densa di umanità, buone coscienze laddove la mondanità dei cicisbei muove i suoi passi di danza del corteggiamento vuoto, narcisisticamente vanesio. Uno specchio chiuso in un cilindro di specchi, dove l’uno è i mille cloni di se stesso e dove il reale delle cose che accadono è un satellite che rivolve attorno al pianeta più grande, tenendo ben oscura la sua faccia nascosta, determinante.

La trama è semplice, convenzionale. Due sorelle: Rosaura, la primogenita e Beatrice, la più giovane. Un innamorato silente, Florindo (Luchino Giordana), giovane colto, poeta e schivo fino al martirio, che vive da studente in casa del padre delle due ragazze da maritare: Dottor Balanzoni (qui ritratto cieco, con un’andatura incerta e ilare, nell’interpretazione di un quanto mai acuto Luciano D’Amico). Sarà lui, innamorato di Rosaura, a scrivere versi e madrigali musicali dedicati alle due bellezze al balcone. Ma sarà Lelio - appena arrivato a Venezia da Napoli, dove aveva vissuto gli ultimi venti anni ospite di un fratello del padre - scapolo impenitente e Casanova per vocazione, ad appropriarsi della paternità artistica per far colpo sulle due sorelle, presentandosi sotto falso nome e con un titolo nobiliare di fantasia. Siccome il corteggiamento orientato al puro edonismo erotico è una pozione che non si dovrebbe mai bere nell’incoscienza delle cose, succede (oh se succede!) che il bel cicisbeo perditempo si innamori veramente della primogenita, nel frattempo circuita con un corredo di menzogne, che un Arlecchino sincero è costretto ad avallare, come un notaio riottoso.

Lo scenario è particolarmente arioso, limitato da due piccole, ma deliziose, facciate di edifici in legno che ospitano l’andirivieni dei personaggi. Lo sfondo è dominato a parete intera da una gigantografia del principale canale veneziano, mentre una spalletta muraria - a fronte dello spettatore - di uno dei tanti ponticelli che lo attraversano gioca il ruolo dell’esterno, del rio dove i personaggi in abiti storici fanno bella mostra di sè scorrendo lungo la via per farsi ammirare e fare incontri. Ma Ottavio, pretendente di Beatrice, lo utilizza come nascondiglio, da cui emerge e scompare, per ricevere l’imbarazzante - e falsa - rivelazione di Lelio che si vanta di essere stato gradito ospite notturno delle due sorelle, in assenza del padre. Pettegolezzo che Ottavio restituisce come verità a un Balanzoni appena tornato da un viaggio, in compagnia del mercante Pantalone (un ottimo Andrea Giordana), al cui figlio ha promesso “al buio” Rosaura. E poiché il diavolo fa le pentole ma mai i coperchi, quando Lelio viene a sapere dal padre di questa misteriosa sua promessa sposa si finge maritato perché innamorato di Rosaura, senza sapere che sempre di lei si trattava! La morale e l’epilogo sono ovvi: Lelio perderà la sua amata, che andrà legittimamente a Florindo e un Ottavio pentito avrà in premio la sua Beatrice.

Interessante è la restituzione dell’opera in chiave moderna che ne fa il regista, Alfredo Arias, lasciando che gli attori ridivengano se stessi nell’intervallo e parlino del disastro della Venezia moderna e della vita grama dei teatranti. E, infine, che menzogna trionfi, dice Goldoni, per chi quella veste intima non se la può proprio togliere di dosso. Perché, in fondo, tutta la vita è commedia e finzione. Spettacolo interessante, leggero come le ali frangiate di un rapace diurno, privo di volgarità e denso di talento.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:24