Le cronache marziane trattano di un viavai tra la Terra e Marte, dei tentativi dei terrestri di giungere nel pianeta rosso e di quelli, avvolgenti e depistanti, dei marziani per respingerli. I marziani fermano anche con gli stratagemmi più strani, quali pistole che sparano api, manicomi e parenti serpenti, le prime tre spedizioni terrestri. Alla quarta soccombono e al contatto con gli umani muoiono tutti di morbillo. Le ondate, come di locuste, dei coloni si susseguono una all’altra, di donne, preti peregrini, vecchi turisti, fino alla partenza di tutti i neri dalla Terra ed all’arrivo dei censori legislatori che erano stati causa delle partenze, finché gli invasori si fanno 90mila e cambiano i nomi di tutte le cose.
La presenza marziana sussiste però, nella rivolta del singolo terrestre a loro difesa, nella vita passata su un altro piano-spazio temporale, nel canto trasparente e inafferrabile, nella danza di sfere, nel volteggiare delle scaglie nere dei corpi bruciati marziani. Scoppia la guerra sulla Terra. L’evento, inspiegabilmente invece di trattenerli, riporta i coloni terrestri indietro, finché a rimanere restano in pochi: un truce e materialista venditore di hot-dog cui viene lasciata l’eredità dell’inutile latifondo marziano, famiglie di robot, una coppia che non si sopporta e case in costante manutenzione domotica grazie ad ingranaggi metà automatici metà animali. Alla fine le cronache, nel loro gioco girevole, riportano le cose al punto di partenza.
Nell’immanente self-destruction della Terra, un’ultima famiglia si rifugia su Marte dove scopre, a sé ed agli altri, la propria reale identità marziana, di pelle d’ambra e di occhi dorati, fari luccicanti che riescono a vedere l’agitarsi scomparso delle antiche acque nei letti di fiumi e mari disseccati. È una favola fortemente impregnata dei miti degli anni in cui venne scritta. La guerra, nello sforzo ciclopico dei contendenti, mentre le vite comuni venivano straziate a milioni, aveva fatto raggiungere livelli sconosciuti alla scienza ed alle conseguenti applicazioni tecnologiche. Il mondo, che sei anni prima si gingillava ancora con parate di cavalleria, era pronto per robot, automazioni, messaggi via radio, decrittazioni enigmistiche, missili, funghi atomici, veicoli giganteschi, aerei e spaziali.
I popoli, trasformati nell’incrocio tra derive ipernazionaliste e incontro forzato bellico, non erano più i soliti baroni e contadini dei secoli passati, ma figure simboliche letterario-ideologiche: i comunisti russi rossi, gli ebrei ricchi e scheletriti; tedeschi ed altri eredi del sacro romano impero germanico avevano perso il loro nome in favore di quello omnicomprensivo di fascisti. Gli stessi americani, tra cui l’autore, si vedevano diversi e irriconoscibili tra loro: i contadini del midwest, la New York etnica e intellettuale, le razze non mescolabili bianca e nera. Poi l’effetto magico dello scientismo e del sociologismo spinto all’eccesso piano piano sfumò fino all’apogeo ed alla fine della guerra fredda, tra navi missilistiche e giganteschi ponti aerei.
L’autore, l’americano Ray Bradbury negli ultimi anni criticò l’approccio attuale alla tecnologia, in particolare il fanatismo giovanile per i marchi più trendy sia di tablet che di social network. Ora che tutti gli umani potrebbero essere marziani, sembrava dire, appaiono come cortigiani ammirati di oggetti di cui non comprendono l’afflato tecno-magico, ma solo il richiamo della moda. Oggi le cronache marziane assumono un altro senso. Sono il futuro incombente, di cui non si conosce il momento ma di cui è noto già lo schema. Non è più valida la minaccia bellica, che quando uscì il racconto, specchiava la forza degli Usa, allora unica potenza atomica. La distruzione della Terra, dei suoi schemi politici, sociali ed economici, sta ineluttabilmente nella compenetrazione di Marte che ormai le è già entrato dentro. Il potere tecnologico, nitido nella sua linearità formale, svuota ogni altro potere e detta anche le modalità della comunicazione degli istinti.
Fino all’ultimo i terrestri, immutabili a se stessi, non comprendono, reagiscono, minacciano e piangono. Nella progressiva disuguaglianza e immortalità promesse dalla tecnologia, un giorno si accorgeranno di non essere più se stessi, forse marziani, forse robot, forse l’uno e l’altro. Bradbury è scomparso nel 2012 nella stima e apprezzamento della migliore cerchia intellettuale. Sette romanzi, 600 novelle, 8 milioni di copie pubblicate e tradotte in 36 lingue, frutto di un’istruzione fondata sulla frequentazione di biblioteche non tolgono l’impressione di una sorta di furba pigrizia dell’autore. I suoi scritti erano brevi, poi ricomposti nell’unità romanzesca in un collagene connettivo che lasciava i singoli oggetti letterari fruibili anche isolatamente.
Cambiò il modo di pensare della gente non solo per i contenuti ma anche per questa scrittura a oggetti, quasi come un software, web-clip series, o script pubblicitari, il che ne fa il primo autore digitale. Non ha avuto però grandi onori, folla alle esequie, ore di dibattiti in tv o premi d’eccellenza. Al contrario ad esempio delle Doris Lessing, cantrice scettica dell’esperienza femminile (Premio Nobel per la letteratura nel 2007), o della canadese Alice Munro (Nobel 2013), non ne ha mai vinto uno. Con la Munro ha potuto condividere solo le onorificenze del regno dell’isola letteraria di Redonda che ha fatto lei duchessa dell’Ontario nel 2005 e lui duca di Diente nel 2006. Le onorificenze del cofondatore della fantascienza fanno sorridere: il premio World Fantasy Life, il Grand Master Award, l’Horror Writers Association Life ed il Grand Master dell’Horror. Almeno i francesi l’hanno fatto commendatore (2007).
E quelli del Pulitzer, non potendolo premiare come giornalista, lo omaggiarono come inarrivabile scrittore di genere fantasy. Difficile che a Bradbury sia veramente importato. Leggerissimo e concretissimo, lo scrittore dell’Illinois aveva un timbro di soave superficialità volteriana che intrigava, disturbava, attirava e faceva pensare senza clamori, senza urli, senza comizi, senza ulcere ma con sottilità come avrebbero detto King ed i nipoti di Tolkien. E a proposito, nel 1961 il comitato svedese Nobel ritenne Tolkien “di seconda categoria”; poi con i premi a Fo, Arafat e Obama decise del tutto di trasformarsi in istituzione satirica. Ray ne avrebbe riso soavemente a lungo. Il suo viso era l’altra faccia dell’espressione nevrotica di Allen, la sua ironia soffice quanto psichiatrica era quella del secondo. Messe radici in California, Bradbury, senza isterie, visse nel mercato della domanda e dell’offerta e da lavoratore, si comportò anche editorialmente, divenendo cine-sceneggiatore proprio come si sarebbe proposto come menestrello alla corte di re Artù.
L’uomo della fuga verso Marte aveva grande attenzione per la Terra dove poggiava saldamente i piedi, per il pubblico i cui gusti vellicava, senza farsi trascinare dalla sua dittatura; mentre considerava filosofia e politica come una trombonata di mode, che come le gonne un anno vanno corte e un anno vanno lunghe senza una ragione. Al contrario di altri autori dello stesso filone, mantenne un serafico distacco dall’elettricità nervosa dei suoi messaggi. Poté a lungo troneggiare sulla fama giunta presto, grazie alle Martian Chronicles del 1950, all’Illustrated Man del 1951, a Fahrenheit 451 (da cui il film di Truffaut del 1966) e The Golden Apples of the Sun del 1953. Poiché non fu uno scrittore maledetto dalla vita breve, come il suo erede Philip Dick, sparito a 54 anni, non ebbe la fama popolare che si sarebbe meritato.
Dalla tecnologia, d’altronde, ci si attende la medesima trasmissione del melodramma della nevrosi rosa dalla sua stessa immagine; si pretende che vi compaiano stupefacenti chimici giusto per il senso della contemporaneità. Per guardare gli schermi tridimensionali, invece, bisogna togliersi i G-glasses e inforcare gli occhi marziani del 92enne Ray, un autore digitale che poteva prescindere dal supporto informatico.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:36