Decisionismo Schmitt ai nostri giorni

Nell’ultimo ventennio (e soprattutto, con una cospicua accelerazione, a partire dalla crisi dell’ultimo governo Berlusconi), il Paese ha conosciuto uno iato, che va vieppiù approfondendosi, tra Costituzione formale e Costituzione materiale. Mentre la nostra Carta fonda una democrazia di tipo parlamentare oggi, invece, assistiamo ad una progressiva decrescita degli effettivi poteri del Parlamento; di contro, parallelamente, si espande l’azione del Capo dello Stato, che assume di fatto la guida della dinamica politica.

Questa situazione può essere inquadrata a livello teorico nell’ambito della riflessione di Karl Schmitt sulla tematica dei pieni poteri che assumono notevole rilievo nelle situazioni di emergenza. Il giurista, che aveva meditato ampiamente sulla storia degli ordinamenti e degli Stati nei periodi eccezionali, negli anni Venti avverte il peso della vicenda tedesca dopo la Prima guerra mondiale e degli effetti devastanti per la Germania determinati dall’iniquo Trattato di Versailles. Sulle ceneri della monarchia guglielmina nasce la Repubblica di Weimar, la cui Costituzione dell’11 agosto 1919 s’intreccia con la grande crisi del 24 ottobre 1929, il cosiddetto giovedì nero, con il crollo improvviso della Borsa di New York. Riflettendo in particolare sull’articolo 48 della Costituzione di Weimar, che conferiva al Presidente della Repubblica poteri eccezionali in situazioni di emergenza, Schmitt approfondiva “le circostanze di necessità” dello Stato, influenzato dalla scuola dei giuspubblicisti dell’epoca di Bismarck: nasceva così la teoria del “decisionismo”, secondo cui è il Capo dello Stato che “decide”.

Quando le circostanze sono normali ci si deve affidare alle norme ordinarie, ma in casi eccezionali la decisione deve essere presidenziale. Schmitt intendeva contrastare la compiacenza che vedeva nella Repubblica di Weimar verso il primato della tattica politicante sulla strategia politica: tutto ciò in un conflitto di forze contrastanti e di fragili equilibri, basati su precarie coalizioni politiche. In tale contesto, per Schmitt si perde il senso dell’unità e dell’autorità statale e l’identità stessa del popolo. Da qui nasce la ricerca di un “custode della Costituzione”, intesa come espressione diretta del popolo e “potere neutro”, individuato nel Capo dello Stato. Per Schmitt l’idea di democrazia non è inconciliabile con l’idea di autorità e, quindi, quanto più la situazione storica di un popolo è critica e quanto più urge una rapida soluzione dei problemi, tanto più si avverte l’esigenza di una direzione politica efficiente contro le forze centrifughe.

Ad una analisi attenta e non suggestionata dalle opzioni politiche di Schmitt (che aderì, non senza riserve, al nazismo) è da considerare che, nel suo pensiero, l’autoritarismo decisionista non conduce ad una dittatura. In effetti, un qualsiasi regime (di diritto o di fatto) presidenziale democratico, nel tentativo di scongiurare gli effetti disgreganti di una direzione affidata a un ceto politico rissoso e litigioso, è istintivamente propenso a canalizzare responsabilità in capo ad un organo monocratico orientato ad un raccordo diretto con il popolo al di là di ogni intermediazione. Il decisionismo schmittiano si concretizza nello sforzo di conferire spessore culturale alle esigenze della tesi del primato e della irriducibilità del “politico”.

Il potere monocratico accentratore (in aperto contrasto con il frazionamento pluralistico ove una molteplicità dei poteri si contrappone l’un l’altro) secondo Schmitt è, come si è detto, da rinvenire nel vertice istituzionale di un Stato e non già in organi giurisdizionali, che non possono mai vantare la qualifica di potere sovrano per diritto originario, essendo tali organi necessariamente soggetti al formalismo delle leggi costituzionali in senso tecnico, per loro natura non necessariamente aderenti alle esigenze storico-politiche di un popolo.

In ultima analisi, l’elemento di coesione, per una società politica, è rappresentato dal Capo dello Stato, che non risponde alle scelte contingenti e opportunistiche delle forze politiche partitiche, necessariamente conflittuali, ma rappresenta, invece, un centro gravitazionale, un coerente momento di aggregazione in opposizione alle spinte del “particulare”, ove si perdono di vista le interdipendenze generali, generando il fenomeno del compromesso quotidiano, della lottizzazione delle cariche pubbliche, che degradano il vivere civile ad un incivile sopravvivere. Non mi pare dubitabile (né del resto molti ne dubitano) che il quadro qui tracciato sia veritiero.

Al di là del giudizio che se ne può dare, sarebbe opportuno non rimuovere questa agnizione di una realtà per più versi inquietante, ma serenamente discuterne. Se di serenità si è ancora capaci.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:24