Troppe le ricorrenze passate sotto silenzio

Il 18 gennaio 1923 si inaugurava a Via degli Avignonesi a Roma il Teatro degli Indipedenti. Era un enorme scantinato di oltre mille metri quadrati scavato sotto una serie di antichi palazzi che iniziava a Via Rasella e sbucava appunto a Via degli Avignonesi. Promotore dell’opera fu Anton Giulio Bragaglia (1890-1960). Già il cognome informa della sua origine di ciociaro frusinate, anzi lui ci teneva a precisare: 'ciociaro’. Le pareti, per risparmiare sugli intonaci, furono ricoperte di iuta e altre decorate da Balla, Depero, Prampolini: già questi nomi danno una idea del livello.

Vi erano almeno quattro grandi sale espositive per opere dell’ottocento, per i contemporanei, per le personali, per i classici. Vi era un teatro con duecento posti a sedere congegnato, attraverso un sistema di argani, in modo da trovarsi al livello della platea sì che alla fine degli spettacoli si trasformava in ristorante e buvette. Era il ‘teatro sperimentale degli indipendenti’ e AGB “vero e proprio pioniere nel campo della scenografia, della scenotecnica, della luministica, della coreografia, della cultura teatrale, delle ricerche fotografiche e cinematografiche: uno dei massimi promotori della ‘modernizzazione’ dello spettacolo novecentesco” così si legge nel libro di Mario Verdone, padre di Carlo, su di lui. Rivoluzionario e all’avanguardia: tra i collaboratori ebbe Antonio Valente, altra gloria della Ciociaria e al di là, insigne, tra il tanto altro, quale creatore di scenografie, di invenzioni teatrali, di luci e di movimenti.

 Venivano rappresentate essenzialmente opere di artisti contemporanei o di artisti stranieri mai presentate. Tutti i più grandi nomi del teatro italiano e straniero passarono per il Teatro degli Indipendenti come pure nelle gallerie esposero tutti i più noti e meno noti artisti del momento: fare i nomi? Balla, De Chirico, Guttuso, Depero, i futuristi, Cagli, Mafai, Rosai, Ghiglia, Boccioni, Boecklin, De Pisis e centinaia di altri. Habituées di Via degli Avignonesi erano Pirandelllo, Cardarelli, Ungaretti, Bontempelli, Cecchi, Savinio, Alvaro, Moravia…Si immagini quanto, anche, sfottevano e criticavano, tanto che il Duce, indispettito dai continui lazzi e satire su di lui e dintorni, fece chiudere il teatro nel 1930 ma poi, dopo la consueta quarantena, chiamò Anton Giulio a dirigere le istituzioni teatrali del Regime, tanta era l’ammirazione.

 Al Teatro degli Indipendenti furono rappresentate opere conosciute e sconosciute in Italia di grandi artisti mondiali: di Alfred Jarry, di Eugene O’neill, di Strindberg, di Cechov, di Shaw, di Wedekind, naturalmente di Pirandello, di Sem Benelli, di Bertolt Brecht. Quando si parla dei Bragaglia, fare nomi è riduttivo poiché quelli che si dimenticano sono cento volte di più di quelli che si ricordano, in tutti i settori. Ma uno degli aspetti apparentemente incredibile era che tutti i giovani di qualsiasi disciplina che avevano veramente qualcosa da dire o da mostrare trovavano in questo crogiuolo e coagulo unico e irripetibile, la maniera di esprimersi e di realizzarsi.

E quindi poco più che adolescenti trovarono spazio e visibilità, tra le decine e decine di altri, Alberto Spadolini pittore e soprattutto ballerino, Gian Gaspare Napolitano autore di commedie futuriste come ‘Il venditore di fumo', Maria Signorelli che espose le sue marionette, burattini, fantocci, sculture morbide, di incredibile poesia. Questo fu Anton Giulio Bragaglia, assistito e appoggiato dai fratelli Carlo Ludovico, fotografo e regista e maggiormente da Arturo, fotografo: un vulcano ineguagliabile, uno sperimentatore e innovatore continuo, ma sempre nel rispetto della tradizione e dei canoni eterni e classici.

Quest’anno è dunque il novantesimo anno dalla nascita di questo eccezionale e unico, in Italia, avvenimento artistico e culturale. Non mi sembra che si sia mossa foglia nella sua patria di origine, Frosinone, dove si pensa e ci si preoccupa ancora solo di cementificare, naturalmente sempre a beneficio della cittadinanza e dell’ambiente. Eppure Anton Giulio Bragaglia, assieme ai fratelli, fa parte dei protagonisti dell’arte e della cultura e della civiltà non solo italiana, del secolo testé uscito di scena. Potrebbe rappresentare una bandiere di richiamo e di attrazione nonché di nobilitazione per questa terra. Eppure tutto si organizza e discute fuorché delle radici.

Quest’anno ormai agli sgoccioli è anche il cinquantennale della morte di Amedeo Maiuri, altro titano della Ciociaria, da considerare il padre dell’archeologia italiana, in particolare di Pompei e di Ercolano: non parliamo della provincia intera ma nemmeno dal suo luogo di origine, Ceprano, mi pare che sia venuto fuori un segno di vita per onorarlo e commemorarlo. E quando personaggi del genere vengono passati sotto silenzio, non se ne comprende il valore, vuol dire che non c’è speranza di rinascita e palingenesi.

 Quest’anno ricadono gli anniversari anche di Eleuterio Riccardi, di Giustino Ferri (l’unico del quale ci si è ricordati a Picinisco sua patria, grazie ad una cultrice privata), di Francesco Beguinot, di Libero de Libero, di Leone XIII, di Luigi Pietrobono, di Pietro Sterbini, di Antonio Labriola, di Vincenzo Petrocelli: quasi ognuno di questi personaggi ha dato e lasciato un contributo artistico o scientifico o letterario alla cultura italiana ed europea. Eppure nulla si è sentito o visto fino ad oggi: fettuccine e rigatoni e vinerie e mangiamenti in abbondanza dovunque in provincia, questo sì. E le scuole? E la università di Cassino? E le biblioteche e affini?

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:31