Antonio Canepa, oscuro delitto di stato

“Antonio Canepa, ultimo atto” e “L’uccisione di Antonio Canepa”, entrambi del giornalista e storico Salvatore Barbagallo (Bonanni editore) tratteggiano – con documentazione inedita - il separatismo siciliano degli Anni ‘40 e la figura di Antonio Canepa, creatore e capo dell’EVIS (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana). Gli avvenimenti che si verificarono negli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale, il periodo dell’occupazione angloamericana della Sicilia, i personaggi che ebbero ruoli determinanti, sicuramente costituiscano la linea di confine tra il noto e l’ignoto di ciò che è accaduto nell’Isola alla vigilia della rinascita dell’Italia dalle macerie provocate dal conflitto bellico. In “Antonio Canepa ultimo atto” si descrivono i retroscena politici e militari che non sono mai stati a sufficienza spiegati: dalla Resistenza siciliana al nazifascismo (assolutamente ignorata), al gioco tra servizi segreti, mafia, Chiesa per l’acquisizione del potere, alla trasformazione dei latifondisti in classe imprenditoriale dominante. Il libro si chiude con un pesante contradditorio sui documenti che “giustificano” la morte di Canepa e di altri due Evisti in un conflitto a fuoco alle porte di Randazzo, il 17 giugno del 1945.

La puntigliosa anatomia dei documenti sulla morte di Canepa è tra i principali pregi di questi volumi. La fine di Canepa avvenne in una tranquilla domenica d’estate, il 17 giugno del 1945, con circostanze mai chiarite pienamente: cadde in un conflitto a fuoco con una pattuglia di tre carabinieri nella strada che da Cesarò porta a Randazzo. Con Canepa morirono due giovani indipendentisti, Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice, un altro, Nando Romano, rimase ferito, due riuscirono a fuggire. Da anni si parla di quell’episodio, ma è stato come girare attorno con il timore di rimanere scottati. Adesso, con questi nuovi libri, Barbagallo non mette la parola “fine” alla storia del “professore guerrigliero”, ma lascia ampio spazio, a chi vuol sapere, per capire cosa sia veramente accaduto. Una delle più belle interviste che Leonardo Sciascia ha rilasciato è quella che, anni fa, era il 1978, venne poi pubblicata nel fascicolo di dicembre di “Mondoperaio”, il mensile del Partito Socialista diretto allora da Federico Coen.

A curare l’intervista Giampiero Mughini, e par di vederli, ascoltarli: entrambi appassionatamente e irriducibilmente siciliani; lui, Mughini, che si è preparato una batterie di domande non banali, che “scavano” e riescono a fornire al lettore – attraverso le risposte che ne ricava – un ritratto “vivo” del personaggio che ha di fronte; e lui, lo scrittore già affermato, che sillaba lento e quasi con voce roca, tra una boccata e l’altra delle sue eterne Benson & Hedges, lo sguardo ironicamente pensoso, pensosamente ironico. A un certo punto, tra Stendhal e Jorge Luis Borges, Vitaliano Brancati e Ignazio Silone, Antonio Canepa. Mughini la prende alla lontana: tra il 25 luglio e la Liberazione, domanda, ma anche dopo, la Sicilia vive una fase dai tratti assolutamente suoi e specifici rispetto a quelli del resto d’Italia, primo fra tutti l’ascesa e l’ampiezza del movimento separatista. Tu ne fosti contagiato? “Assolutamente no”, risponde Sciascia. “Fui antiseparatista fin dal primo momento. A Racalmuto, con un gruppo d’amici, costituimmo addirittura un movimento antiseparatista, affittammo una sede, firmammo un manifesto. Nel separatismo mi sembrava evidente la prevalenza della destra agraria, della mafia, di tutto quel “sicilianismo” che io detestavo”. “Sicilianismo”… più avanti nell’intervista, Mughini gli chiederà se il “sicilianismo”, la “sicilianità” sia una malattia inguaribile, ricavandone che non la ‘sicilianità’, ma la ‘sicilitudine’ (da intendere come il poeta Léopold S. Senghor intendeva la ‘negritudine’) sia “una malattia, questo amore, questa passione per la Sicilia va vissuta nel modo giusto, senza esaltazioni e senza sacrifici”.

Ma per tornare al separatismo: l’intervistatore, evidentemente non del tutto convinto e soddisfatto, insiste: “Eppure, anni più tardi, ti sei interessato al leader della sinistra separatista, il separatista Antonio Canepa. Volevi farlo diventare il personaggio di un tuo libro”. “Di Canepa”, risponde Sciascia, “mi aveva interessato la sua dimensione di sconfitto, che aveva in comune con altri miei personaggi. Studiandone più a fondo la vita e la presenza, il personaggio mi deluse. Mi parve carico di ambizioni e di mitomanie. Era giunto al punto di scrivere una sua autobiografia esaltatoria e di gabellarla come scritta da un francese”. Mughini tenta un salvataggio e lancia un’esca sapendo che Sciascia ne può venir intrigato: “Che fosse un pirandelliano gioco delle parti per imbrogliare le piste alla polizia fascista?”. Sciascia non abbocca: “Non credo a tal punto. In quegli stessi anni stava compilando una “Storia del PNF” che gli valse la cattedra. La sua ambiguità non era quella di un politico lucido, ma qualcosa di più gretto”. Giudizio senz’ombra di “grigio”, secco; di chi non si ferma alla crosta di una questione, ma la scava, la penetra; e giunge a una conclusione dopo una non breve “istruttoria”. Peccato che Sciascia non ci sia più, che Mughini non lo abbia ulteriormente incalzato su Canepa, che tutti noi si sia nella condizione di conoscere su cosa si fonda la “delusione” sopravvenuta all’interesse (Sciascia era un attento e sagace lettore di documenti).

Il capitolo che Salvo Barbagallo dedica al “Canepa neofascista” fornisce sì il ritratto di un personaggio ambiguo, e preda di un’esaltazione che può trarre d’inganno solo uno sprovveduto. E per quanto anche l’OVRA e l’apparato fascista fossero intrisi di “italianità”, non si può che condividere lo stupore e l’incredulità di Barbagallo: è impossibile che il regime non fosse a conoscenza di quel che Canepa era. Eppure, “non subisce alcuna conseguenza, anzi ha il cammino professionale spianato. Da chi, e perché?”. Diciotto anni prima Sciascia a Canepa aveva dedicato una sua nota. In quel tempo aveva su “L’Ora” di Palermo una rubrica, “Quaderno”, e forse l’avrà scelta mutuandola dal francese “cahier”, interventi da intendere come appunti, pagine di diario; oppure avrà voluto alludere al pirandelliano “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”. Ma vediamo la nota, pubblicata il 19 giugno 1965, ci aiuta a capire quello che verrà detto nel 1978: “Con queste parole di Amiel – “Noi ci serbiamo a un avvenire che non viene mai” – si chiude un curioso libretto autobiografico di Antonio Canepa, palermitano, professore di storia delle dottrine politiche nell’università di Catania, comandante dei gruppi armati del Movimento indipendentista nella zona etnea e in quella zona ucciso dai carabinieri.

La breve autobiografia, pubblicata nel 1940, è presentata con ingenua e complicata mistificazione: ne è dato come autore un Jean Sorédan, chein una nota ringrazia un dottor Guido Colozza, segretario di Canepa, per i dati e le informazioni che gli aveva fornito; la traduzione dal francese è attribuita a un Federico Vitanza Scotti, al quale Canepa, in una lettera stampata su carta verde e alligata al libretto, blandamente rimprovera qualche inesattezza del Sorédan. Questo gioco mistificatorio, di mistificazioni che escono una dall’altra come scatole cinesi, è in parte frutto del temperamento di Canepa e in parte dettato dalla contingente necessità di dire e non dire, di dare ambiguità a certe affermazioni che nel 1940, diciottesimo dell’era fascista, potevano essere pericolose. Sotto le dichiarazioni di ortodossia fascista Canepa infatti velava l’affermazione di principi democratici: ‘Veramente grande è colui che sa ascoltare con paziente serenità le argomentazioni di un avversario…Sono tre le virtù, immensamente rare, che sole valgono a conciliare l’uomo con se stesso e col mondo: la tolleranza, la moderazione, la semplicità… Questa guerra, come tutte le guerre, è un giuoco temerario nel quale i veri interessi dei popoli non hanno parte…”; e quando il suo immaginario biografo gli domanda se crede che dalla guerra sorgerà l’ordine nuovo, sbandierato dai nazi-fascisti, recisamente risponde di no.

Questa stessa ambiguità è nel suo voluminoso “Sistema di dottrina del fascismo” attraverso il quale riesce a far passare tanta dottrina allora proibita, tanto pensiero “eretico”. Il ritratto che vien fuori dall’autobiografia è quello di un uomo fondamentalmente romantico ed anarchico, effettualmente autodidatta (e con tutta la confusione e presunzione dell’autodidatta, ma con pronunciate venature illuministiche. Parlando della sua formazione dice di aver esumato il “Dictionnaire philosophique” di Voltaire e persino gli scritti di Bayle: e veramente, in quegli anni, autori come Bayle e Voltaire erano così scarsamente frequentati che a buon diritto può dire di averli esumati. Il suo gusto per l’avventura era straordinariamente vivo: aveva tentato, nel 1933, di occupare con le armi la Repubblica di San Marino e di resistervi per qualche tempo, per dire al mondo che in Italia l’antifascismo era vivo anche nella nuova generazione. Ma il complotto fu scoperto, e i congiurati furono arrestati parte in territorio italiano, parte a San Marino. In Italia, furono dati per pazzi; a San Marino si ebbero dure condanne.

Di ciò Canepa tace nella sua autobiografia. Ma è chiaro che, finita l’avventura sammarinese, Canepa si diede a scalare la cattedra universitaria con uguale spirito di beffarda avventura: nel giro di tre mesi buttò giù il poderoso “Sistema di dottrina del fascismo”, suscitando la diffidenza del massimo organo di stampa dei fascisti, che vi notava la fede fascista ridotta a una aridissima categoria kantiana, e il consenso dei cattedratici, che invece vi riconoscevano esattezza metodologica. Successivamente pubblicava uno studio sull’organizzazione del partito fascista che incontrava il consenso dei dottrinari e dello stesso “Popolo d’Italia” che lo aveva attaccato per il Sistema: per cui, giovanissimo, si trovò incaricato per la storia delle dottrine politiche prima nell’Università di Palermo e poi in quella di Catania. Aveva capito, come già i comunisti, che ai giovani antifascisti meglio conveniva operare da di dentro. Forse in questo periodo, intorno al 1940, egli ebbe modo di stabilire contatti col servizio segreto inglese: persone degne di fede, che gli furono vicine fin dal suo arrivo all’università di Catania e per tutto il periodo della guerra e dell’azione indipendentista, assicurano che questi contatti ci furono, e si concretarono in azioni di sabotaggio in Sicilia. E crediamo che dalle stesse fonti provengano le informazioni che Filippo Gaja offre nel libro “L’esercito della lupara”. Gaja dice anzi che dopo un’azione di sabotaggio condotta contro l’aeroporto di Gerbini, Canepa passò nel nord d’Italia per svolgere una missione; e precisamente intorno a Firenze ebbe a partecipare, nei primi del ’44, ad azioni partigiane.

Ma comandanti partigiani della Toscana, da noi interpellati, lo escludono; a meno che, come ci ha detto uno di loro, Canepa non sia stato uno di quegli elementi di collegamento dei servizi inglesi, i quali si muovevano da una formazione all’altra con assoluta autonomia e senza mai entrare in effettiva confidenza coi partigiani. Il che può essere appunto il caso. Certo è, comunque, che nell’estate del ’44 Canepa è di nuovo in Sicilia: indipendentista ma, afferma il Gaja, con la tessera del Partito Comunista in tasca. Affermazione questa, non comprovata da alcun documento o testimonianza, anche se sono indubitabili gli intendimenti effettivamente rivoluzionari, di rivoluzione sociale, che il Canepa portava dietro il Movimento Indipendentista. Prima la Sicilia indipendente, diceva Canepa, e poi le terre o le teste. Ma a rimetterci la testa fu proprio Antonio Canepa, teorico e guerrigliero della rivoluzione indipendentista siciliana. Il 17 giugno 1945, alle porte di Randazzo, una pattuglia di carabinieri intimò l’alt a un motofurgoncino, proveniente da Cesarò, guidato da Giuseppe Amato (oggi consigliere comunale di Catania per il PSIUP) con a bordo Canepa, Nino Velis, Carmelo Rosano, Nando Romano e il giovanissimo Giuseppe Giudice. La sequenza del fatto, ansiosa e veloce, non risulta del tutto chiaro dal ricordo dei protagonisti: Amato ricorda di aver visto un carabiniere tirar giù dal furgoncino il ragazzo Giudice e di aver poi sentito il primo sparo; Velis ricorda invece prima lo sparo, forse da parte di Canepa contro i carabinieri.

Discordanza abbastanza comprensibile, se si considera che Amato vide la scena voltandosi per un momento indietro e Velis l’aveva invece di fronte. La differenza dal punto di vista tra Canepa e Amato fu d’altra parte, con tutta probabilità, quella che segnò il tragico destino di Canepa, Rosano e Giudice; perché Amato sapeva di avere già guadagnato la curva, mentre Canepa vedeva ancora la pattuglia dei carabinieri. Sarebbero bastati un paio di metri ancora, e sarebbero stati fuori tiro: ma Canepa battè sulla spalla di Amato, che era il segnale stabilito perché si fermasse; Amato si fermò, sentì uno sparo e poi il grido di Canepa: “Perché sparate, che bisogno c’è di sparare?”; il che vuol dire che erano stati i carabinieri a sparare il primo colpo, forse per intimidazione. Poi seguirono altri scoppi, uno dei quali fu quello della bomba a mano che Canepa portava in tasca e che gli dilacerò la coscia (la bomba, evidentemente, fu colpita da una pallottola). A questo punto, Velis che scappava per i campi e Romano e Giudice a terra colpiti, Amato si lanciò col furgoncino nella discesa verso Randazzo, portando Rosano agonizzante e Canepa ferito. Alle prime case abbandonò il furgoncino, raccomandando alla gente di portare in ospedale i feriti.

E così fu fatto: ma Rosano arrivò morto, e Canepa vi morì dissanguato. Pare che carabinieri e medici fossero convinti di avere tra le mani dei banditi. E che i carabinieri non si siano dati a preoccuparsi molto (o forse se ne preoccuparono anche troppo), lo dice il fatto che Romano, che era soltanto ferito, fu portato al cimitero di Giarre per essere seppellito: e soltanto la solerzia del becchino evitò la raccapricciante conseguenza. Così, fortuitamente o deliberatamente, lo Stato italiano scese al primo compromesso con la destra indipendentista”. Amato, nella testimonianza raccolta da Barbagallo non dice, per la verità, di aver sentito Canepa urlare: “Perché sparate, che bisogno c’è di sparare?”, piuttosto: “Perché non vi siete fermati?”, e la domanda evidentemente è rivolta ai suoi compagni, non ai carabinieri. Sempre Barbagallo ha cura di riportare l’anonimo resoconto del fatto pubblicato dal quotidiano La Sicilia, il 19 giugno 1945: “…due giovani furono uccisi e un altro ferito; un altro ancora, il più anziano dei sei, fu colpito all’inguine, ma siccome nella tasca dei pantaloni portava una bomba a mano,, la fucilata fece esplodere l’ordigno lasciando l’uomo morto sul colpo…”. Cronaca, chiosa Barbagallo, interessante: “poiché, al di là della veridicità o meno, mette in rilievo che una fucilata colpì una bomba a mano facendola esplodere”; alziamo doverosamente le mani, che le uniche armi che ci sono passate per le mani sono quelle usate quando, ancora con i calzoni corti, si giocava ai cow-boy e ai pellerossa; però Barbagallo, che avrà senz’altro verificato con gli esperti, nota che si tratta di cosa “inverosimile, in quanto una bomba con la sicura non tolta non può esplodere”.

Non appare comunque arbitrario e neppure frutto di irriducibile dietrologismo, sostenere che anche per Canepa si può utilizzare il celebre titolo de l’Europeo all’inchiesta di Tommaso Bezozzi sulla morte-uccisione del bandito Giuliano: “Di sicuro c’è solo che è morto”. Come annota Nicola Tranfaglia nel suo “Mafia, Politica e affari” 1943-191 (Laterza), la fine del rivoluzionario Canepa rimane avvolta nel mistero, “attribuita alla reazione degli agrari preoccupati della riuscita di una rivoluzione che avrebbe potuto rovesciare il sistema agrario sostanzialmente feudale”. Ma per tornare a Sciascia: nell’articolo per “l’Ora” tratteggia sì un Canepa mistificatore e ambiguo, ma traspare un moto di simpatia quando gli riconosce uno spirito romanticamente anarchico, una sorta di guascone, che tuttavia qualche numero doveva pure averlo, se è vero che viene preso in considerazione dai servizi segreti britannici, che con la Sicilia e i siciliani avevano lunga consuetudine, e basterebbe pensare al ruolo che giocarono per esempio, nel favorire l’impresa garibaldina; e del resto, guardate una cartina del Mediterraneo: tra la rocca di Gibilterra e Malta, la Sicilia per Londra da sempre costituiva un “naturale” luogo strategico. Cosa sia accaduto, cosa Sciascia abbia scoperto e compreso (o creduto di comprendere) da trasformare il “romantico anarchico” in personaggio ambiguo che non è quella “di un politico lucido, ma qualcosa di più gretto”, non sapremo dire. “Eccentrico”, indubbiamente, per rubare la definizione che ne dà il professor Giuseppe Carlo Marino nella sua Storia della mafia (Newton Compton), che in un’altra sua opera, I padrini (Newton Compton), ne parla come di un “puro e ingenuo ‘guerrigliero’”. E in effetti sì, a leggere l’opuscolo La Sicilia ai siciliani pubblicato clandestinamente in capitoli staccati a Catania, alla fine del 1942 e l’anno successivo riunito in volumetto con la firma “Mario Turri”, se ne ricava impressione di eccentricità e di ingenuità.

E anche di un’enfasi che ha del “tragediatore”: “…Circa 450 anni prima di Cristo, sotto la guida di Ducezio, cacciammo dall’isola i greci…in un’epoca assai più recente, nel 1282, scoppiarono i famosi “Vespri siciliani”: quanti francesi avevano messo piede in Sicilia vennero scannati senza pietà…”. Per giungere poi al dettagliato promesso piano di insurrezione: “…Nei più piccoli paesi come nelle grandi città, ciascuno costituisca un Gruppo separatista, di persone fidate e devote, poche, dieci al massimo; e si tenga pronto ad accorrere, con esse, dove fosse necessario, secondo gli ordini che potessero essere diramati. A stabilire i contatti, se sarà il caso, si provvederà al momento opportuno…”. Roba che a leggerla ora fa venire in mente Duck Soup dei fratelli Marx, la strampalata guerra a Freedonia; vero è che in questa storia, non c’è solo il romantico, anarchico, ingenuo, eccentrico – o gretto – Canepa; qui troviamo – e fa bene a ricordarcelo, e ce lo ricorda molto bene – anche il bandito Giuliano, capi mafia per nulla romantici e che in spietatezza niente avevano da imparare dagli attuali, di qua e di là dell’Oceano: da Calogero Vizzini a Lucky Luciano, da Giuseppe Genco Russo a Vito Genovese… un periodo oscuro e pieno di trame, che si snoda dalla strage a Portella della Ginestra fino al caffè corretto al veleno dell’Ucciardone servito a Gaspare Pisciotta… Le trattative, i compromessi, i “patti”, i papelli di oggi, a confronto di quelli di allora, fanno sorridere; e comunque, di quegli anni, di quelle trattative, di quei compromessi, di quei “patti”, sono figli. E per sperare di riuscire a comprendere qualcosa dell’“oggi” che ci consenta di scongiurare quello che già si prefigura per “domani”, occorre conoscere quello che è accaduto “ieri”, il libro di Barbagallo è lettura fondamentale.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:24