
Chi ha paura di Christine Lagarde? Certo non la sua omonima, la presidente dell’Argentina Cristina Kirchner. All’ultimatum della segretaria del Fondo Monetario Internazionale che soltanto una manciata di giorni fa le ha intimato di fornire entro la dead line del 12 dicembre 2012 dati attendibili sull’inflazione e sul prodotto intendo lordo pena l’espulsione dell’Argentina dal Fondo stesso, la Kirchner ha optato, decisa, per una prova muscolare posizionandosi di fatto contro i poteri forti della finanza e delle speculazioni internazionali. Lo “scontro tra le due Cristine” ha fatto il giro del mondo. Tranne che nel nostro paese. Dove, a “qualcuno”, la Kirchner con le sue sortite deve incutere timore visto che la notizia della non irrilevante battaglia tra lei e la segretaria del Fondo Monetario Christine Lagarde è stata taciuta dal sistema mediatico “verticale” ed ha trovato spazi di analisi e commento soltanto in rarissimi casi nei circuiti controinformativi dei blog.
Il contrasto tra Argentina e Fmi, in realtà, si trascina da anni e, se vogliamo, esula dai confini del paese della milonga per abbracciare l’intera parabola economica del Sudamerica fin dai tempi in cui, in occasione degli accordi del Wto, il mercato sudamericano dette segnali di insofferenza propendendo piuttosto per una zona di libero scambio interna. L’eccesso di vincoli e di politiche di rigore imposte ultimamente dal fondo monetario non poteva che riaccendere lo scontro, tutto politico, tra il mondo della finanza internazionale, delle oligarchie economiche e delle tecnocrazie e un paese, l’Argentina, che, sia pure tra mille contraddizioni e con misure più che discutibili, non ha nessuna intenzione di lasciar colonizzare il proprio mercato, forte delle proprie risorse e deciso ad attuare antiteticamente rispetto ai diktat del supremo organismo economico internazionale, le politiche economiche ritenute più consone alla ripresa interna. All’aut-aut rivolto dalla segretaria del Fmi all’Argentina, la Kirchner non ha esitato un istante a richiedere rispetto per la sua posizione “politica” a «salvaguardia della nostra autonomia ed indipendenza». Un punto fermo che poggia, secondo la presidente argentina sul fatto che «l’Argentina è una grande nazione. Ma prima ancora è una nazione grande...con risorse nostre che ci consentiranno la salvaguardia della nostra autonomia e della nostra indipendenza». Un pout pourry di disagio ed orgoglio nazionale populista corroborato anche dall’esperienza della decisa ripresa del paese legata all’esportazione di soia e dei limoni argentini che riforniscono la Germania la Gran Bretagna e una multinazionale come la CocaCola. E, come ricorda il blogger Sergio Di Cori Modigliani, dalla decisione presa nel 2010 proprio dalla multinazionale che rischiava la perdita delle forniture per via della scelta da parte della Ue di bloccare l’esportazione dei limoni, di intervenire a propria tutela e di conseguenza a difesa del mercato argentino.
La Kirchner ha insomma dichiarato guerra allo sconfinamento da parte del Fmi dalle sue funzioni di monitoraggio sulla situazione finanziaria delle nazioni a quello di intromissione ed imposizione di una linea economica, non verrà più accettato. Che poi il prezzo da pagare internamente al paese sia comunque altissimo è altro discorso: in strada spopola il cambio in nero, gli argentini non possono viaggiare all’estero con più di cento dollari di diaria, è previsto il 15% di tasse sugli acquisti con carta di credito ed è in itinere una legge per cui agli argentini sarà concesso viaggiare all’estero solo una volta all’anno, il costo della vita si è impennato, il governo non esita a ricorrere a metodi coercitivi per colpire gli avversari. L’obiettivo rimane: sottrarsi alla sudditanza alle oligarchie economiche internazionali. Ed era già stato palesato dalla Kirchner con quel: «Vorrà dire che staremo fuori» in replica alle minacce della Lagarde quando non esitò a sostenere di preferire «un’inflazione altissima e spropositata se so che la disoccupazione dal 34% è scesa al 3,5%; che la povertà è diminuita del 55%; che il pil viaggia di un +8% annuo; che la produttività industriale è aumentata del 300%; che c’è lavoro in Argentina, c’è mercato per tutti, e il mio popolo è molto ma molto più felice di prima, piuttosto che avere un’inflazione del 3% come in Italia, dove c’è depressione, disperazione, avvilimento e l’esistenza delle persone non conta più. E questa è un’affermazione politica. Di principio e sostanziale. Non lo ha ancora capito?».
Il punto è che la Lagarde lo ha capito benissimo e sa che l’Argentina è incardinata su una politica keynesian-peronista che punta sugli investimenti infrastrutturali, sull’istruzione, sulla ricerca e sull’innovazione, sulle tutele salariali, sulle agevolazioni all’imprenditoria interna e su un solido sistema di investimenti che consente operazioni soltanto su titoli di aziende reali. L’Argentina, in sostanza, sulla scia dell’antica tradizione peronista e in nome del principio, invocato dalla Kirchner, dell’autodeterminazione dei popoli e sancito dall’ Onu, è disposta a tutto pur di non piegarsi all’austerità imposta da colossi finanziari e dalle banche centrali che hanno l’unico obiettivo di espropriare le nazioni della loro sovranità economica e politica. Un pericoloso precedente, dunque, che, semplificando al massimo, potrebbe innescare un effetto domino tra i paesi più ricchi di risorse spendibili alla stessa stregua di come è stato fatto con i limoni argentini. E di cui, non a caso, nel nostro paese, guidato da quel Monti che della cultura del Fmi e dell’euroburocratismo è espressione e corifeo insieme, non è stato fatto alcun cenno. Nonostante il caso in Gran Bretagna, appena oltre Manica, sia pedissequamente seguito dai media tanto da meritare un titolo preciso: “The Christines at war”. Il punto, è bene specificarlo, non è schierarsi a favore degli degli istituti di rating privati, J.P.Morgan, Citibank e Societé Generale (tutti, comunque, come abbiamo sperimentato anche in Italia, interessati a speculare su mercati destabilizzati) che registrano l’inflazione al -30% o dell’Istat argentino, l’Indec, che sull’altare del consenso interno da tempo fornisce dati statistici probabilmente sottostimati sull’inflazione dandola al -8% annuo.
O sorreggere o meno la politica delle indicizzazioni salariali progressive rispetto all’inflazione con cui la Kirchner risponde all’aumento dei prezzi in modo antitetico alle direttive di rigorismo del Fmi. Il nodo, semmai, è conoscere che esiste questo dibattito, evidenziarlo. Per capire come potrebbe ripercuotersi nel nostro paese o manifestarsi nel prossimo futuro anche da noi. Quando, ad esempio il pozzo delle aziende da svendere sarà prosciugato e la nostra proverbiale capacità di risparmio annichilita. Eppure la dinamica e gli sviluppi prossimi del caso toccano anche la Bce e l’Italia in virtù delle loro relazioni economico-energetiche con il “sistema Argentina”. Al contrario, sulla vicenda i media hanno fatto calare una cappa fumogena. Se nello scontro tra colonialismo finanziario delle oligarchie economiche e post-peronismo vincesse il diritto all’informazione, sarebbe quantomeno restituita ai cittadini la sovranità della consapevolezza. E saremmo già un passo avanti. Ma di questo i tecnocrati Lagarde e Monti hanno paura.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:22