Rosmini: cattolico, liberale e federalista

Antonio Rosmini Serbati, pur immerso in tantissime e complesse attività, si è anche impegnato concretamente nel raggiungimento dell’Unità d’Italia, soprattutto nel 1848-49, operando affinché gli Stati della penisola potessero unirsi in una Confederazione. Nato a Rovereto il 24 marzo 1797, studiò teologia a Padova e fu ordinato sacerdote nel 1821.  Durante il suo soggiorno milanese del 1826 conobbe Alessandro Manzoni con cui rimase unito da una profonda e sincera amicizia e da cui fu sempre sostenuto nei dissapori che il Roveretano ebbe con le autorità religiose. Nel 1828 fondò una Congregazione religiosa. l’Istituto della Carità, formato da sacerdoti e laici, avente come finalità l’esercizio della carità universale (spirituale, intellettuale e temporale).  Nel 1832 fondò anche il ramo femminile, le Suore della Provvidenza, con lo stesso carisma. Di tendenze liberali e contrario al potere temporale della Chiesa, Rosmini si sforzò di convincere Pio IX alla causa dell’Unità d’Italia sostenendo che, non solo essa non era in contrasto con il carattere spirituale della Chiesa, ma, addirittura, l’avrebbe favorita perché con un disimpegno dal potere temporale, la Chiesa avrebbe esercitato molto meglio la sua missione di guida religiosa. E’ Rosmini stesso che ce ne parla nel Della missione a Roma di Antonio Rosmini Serbati negli anni 1848-49: Commentari.  Egli ebbe piena consapevolezza del fallimento della sua missione presso Pio IX e ne provò grande disagio. E quasi immediatamente dopo, si ebbe anche la messa all’Indice delle opere in cui Rosmini affrontava tale problematica.

Aveva scritto Rosmini: Quando «la Chiesa è carica delle spoglie d’Egitto, come di altrettanti trofei; allora ch’ella pare divenuta arbitra delle sorti umane, allora solo ella è impotente, ella è il Davide oppresso sotto l’armatura di Saul; quello è il tempo del suo decadimento».  La povertà  è  - scrive ancora Rosmini -  «l’unico mezzo onde la religione del Crocifisso può giungere a signoreggiare gli interessi umani».  E aveva aggiunto: «In Lui solo ella [la Chiesa] è forte e può confidarsi. Mosso a pietà di lei, [Dio] concede alla ferocia del secolo di buttarsi sui beni temporali della Chiesa, e farne bottino, riducendola in tal modo a quella sua originaria semplicità, che… trae di nuovo a sé tutto».

Il Roveretano aveva già colto profeticamente la necessità per la Chiesa di liberarsi dai vincoli temporali nella sua famosa opera: Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa.  Nella terza piaga, in particolare, faceva esplicite riserve sulla difesa del patrimonio ecclesiastico e faceva sue le tesi dell’Avenir (il giornale di De Lamennais, Montalembert e Lacordaire) concernenti la rinuncia alle ricchezze e allo stipendio statale del clero.  Nella quinta piaga, poi, metteva in evidenza come i beni ecclesiastici causavano servitù.  Rosmini rilevava i danni del sistema dei benefici, proponeva la rinuncia ai privilegi e la pubblicazione dei bilanci della Chiesa.

Ma Rosmini non si limitò a parlare dell’Unità d’Italia solo come se fosse quasi uno strumento per riformare la Chiesa, ma scrisse dell’Unità d’Italia, anche considerata in se stessa.  Egli scrisse: «L’unità nella varietà è la definizione della bellezza.  Ora la bellezza è per l’Italia.  Unità, la più stretta possibile, in una sua naturale varietà: tale sembra dover essere la forma della organizzazione italiana».  

Il suo progetto di federalismo prevedeva una “Confederazione perpetua” fra Stati. Venne pubblicato nella Costituzione secondo la giustizia sociale e nella Costituente del Regno dell’Alta Italia. Probabilmente venne considerato un progetto troppo ambizioso, anche fra gli altri patrioti impegnati.

Prima del progetto di “Confederazione perpetua” del Rosmini, infatti, si lavorava ad una “Lega” che prevedeva la piena autonomia dei singoli Stati che la costituivano, i quali potevano ritrarsi e scioglierla a loro piacimento.  La “Confederazione” rosminiana, invece, vincolava tutti a fare ciò che il bene comune richiedeva. Chiudeva la porta alla scissione dei singoli Stati, semplificava le decisioni perché le rendeva comunitarie. Il suo pensiero era ben conosciuto, così come lo fu il suo accorrere a Milano, allo scoppio delle famose Cinque Giornate (18-22 marzo 1848).

E fu per questo che Casati e Gioberti, da Torino, si rivolsero a lui, nel 1848, per svolgere la delicata missione di indurre Pio IX ad appoggiare maggiormente la causa italiana, fino a concedere quell’aiuto militare di cui il Piemonte aveva bisogno in quel momento.  Rosmini sembrava loro il più indicato, essendo sia un dotto e santo sacerdote che un cattolico liberale. E Rosmini si recò a Roma, pur sapendo che gli spazi di soluzione erano limitati.  Egli aveva non tanto una visione geografica dell’unità d’Italia, ma piuttosto politica, che abbracciava cioè la storia, la lingua, i costumi, la letteratura.  Egli voleva conciliare una forte soluzione federalista con l’esigenza dell’unità, per cui condannava i localismi, i municipalismi, gli egoismi dei vari territori. A Roma, il Segretario di Stato Giacomo Antonelli, manovratore occulto della politica di Pio IX, non condivideva affatto queste idee di Rosmini. Se da un lato vi era un gruppetto, con Rosmini, che desiderava l’unificazione non violenta e con il concorso di tutte le forze italiane, dall’altro vi era un secondo gruppo, molto più nutrito che, con l’Antonelli, sosteneva con intransigenza di voler conservare lo status quo, anche mediante il ricorso alle forze straniere. 

Mentre era a Stresa, Rosmini fu raggiunto dalla notizia che due delle sue importanti opere (Delle cinque piaghe della Santa Chiesa e  Costituzione secondo la giustizia sociale) erano state messe all’Indice il 6 giugno 1849,  e proprio con un decreto firmato personalmente da Pio IX.

Quella messa all’Indice, più che un giudizio dottrinale, assumeva un chiaro significato politico.  Costituiva, cioè, un appiglio per mettere in guardia quei cattolici che volevano conciliare le idee liberali con il pensiero cristiano (dal Manzoni, al Tommaseo, dal Cattaneo a Gioberti e a D’Azeglio).

Come effetto di questa messa all’Indice, si ebbe l’oblio del suo pensiero politico fra i cattolici, Rosmini fu quasi dimenticato.  Fu anzi circondato, nella cerchia clericale, da molti avversari. Durante quasi tutto il periodo in cui è sopravvissuta la condanna della Chiesa (è solo nel 2001 che l’allora Cardinale Ratzinger ha tolto dall’Indice tutte le sue opere),  Rosmini non ha goduto più neanche del favore della maggior parte della stampa cattolica. 

Anche fra i non cattolici si perdette la memoria dell’idea rosminiana de “l’Italia unita nella diversità”. Un federalismo che non divide, che non lacera l’Italia, ma che la rende più unita e più forte.  E’ significativo l’esempio che egli porta:  l’uomo è fatto di un corpo che è unico, ma che è costituito da diversi organi, da diverse parti.  Se una parte è malata, va curata, affinché ritorni a vantaggio dell’unità.  L’intento di Rosmini era quello di costituire l’unità d’Italia con la compartecipazione di tutti gli stati italiani e non, come di fatto avverrà, con l’annessione al Piemonte del resto d’Italia.

Come pensatore politico combatté la “statolatria”, scrivendo sul rapporto tra diritto naturale e nuove teorie sociali:  Saggio sul comunismo e sul socialismo (1847).  Lo Stato  - secondo Rosmini -  deve limitarsi a garantire i diritti dei singoli e a regolare i “rapporti tra le famiglie”.

Rosmini rifiutava l’idea di un cattolicesimo politico, l’idea cioè di un partito cattolico, perché vi vedeva il pericolo di “intorbidare il cristianesimo con le passioni del secolo”, vi vedeva una contaminazione dei valori religiosi.  Voleva stabilire una presenza dei cattolici nella vita sociale svincolata dall’idea che la religione potesse fare da bandiera “di parte”, potesse essere strumento di lotta.

Anticipando i tempi, egli propose anche una Suprema Corte di Giustizia, eletta dal popolo, con il compito di giudicare non solo l’eventuale incostituzionalità delle leggi votate in Parlamento, ma anche qualunque violazione del diritto naturale, dei diritti della persona umana.

Nel corso del Novecento, pur se gradualmente, il giudizio dei Papi su Rosmini, cominciò a mutare.  Giovanni XXIII ne elogiò l’insegnamento spirituale.  Paolo VI  lodò pubblicamente i due istituti religiosi da lui fondati e tolse il divieto di pubblicazione Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, libro ormai divenuto, con il Concilio Vaticano II, di grande attualità. Giovanni Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio, annoverò Rosmini «tra i pensatori più recenti nei quali si realizza un fecondo incontro tra sapere filosofico e Parola di Dio», e ne autorizzò l’introduzione della causa di beatificazione.  Cosa che avvenne nel 2007.  Il pensiero di Rosmini venne così definitivamente riabilitato.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:33