Caressa e il fuorigioco da romanzo

Fabio Caressa, il più noto telecronista sportivo d'Italia, inconfondibile voce del calcio su Sky, il quale, dopo aver scritto un libro sul mondiale del 2006 ed uno sul poker, pubblica ora il suo primo romanzo: «Gli Angeli non vanno mai in Fuorigioco» (2012, edizioni Mondadori, collana Strade Blu). Finora avevamo conosciuto il telecronista e l'autore di libri squisitamente sportivi, oggi troviamo Fabio Caressa il romanziere.

È l'inizio di una nuova carriera?
Non mi considero uno scrittore, ma ritengo che, quando si hanno delle storie da raccontare, sia giusto raccontarle. Non so se si tratta del primo di una serie di romanzi, come sempre sarà il pubblico a decretare se sono riuscito nel mio intento: se questo libro piacerà, potrei decidere di scrivere ancora.

Come nasce quest'opera?
Questo libro nasce perché la Mondadori, qualche tempo fa, mi aveva chiesto di scrivere un libro sul calcio, non un volume sportivo in sé, ma un romanzo sull'idea del calcio tramandata di padre in figlio, come dialogo tra generazioni differenti. Al giorno d'oggi, il calcio è uno dei pochi elementi che sopravvive allo steccato nei rapporti tra padri e figli: il genitore è colui che porta il bambino allo stadio, o generalmente funziona così. Il calcio funge così come punto di contatto fondamentale tra generazioni diverse, viene trasmesso di padre in figlio, anche attraverso l'amore per la squadra del cuore. Un ponte tra le generazioni, sempre prodotto del momento che si vive e del paese che lo genera.

Cosa racconta «Gli Angeli non vanno mai in Fuorigioco»?
Il libro narra la storia di cinque amici, capitanati da Diego, tredicenne appassionato di calcio, durante un'estate trascorsa in vacanza a Villalago, piccolo paese in Abruzzo. Tra una partitella e l'altra, i ragazzi si imbattono casualmente in un Vecchio, personaggio misterioso, burbero solo apparentemente, che parlerà loro di calcio, dei suoi miti e delle sue leggende, alla scoperta di un mondo a loro sconosciuto: racconterà loro, ed anche ai loro genitori, della Lazio del '74 di Chinaglia e Maestrelli, della Roma di Liedholm e Falcào, del Milan di Sacchi e Van Basten, della Juve del Trap e di Platini, dell'Italia di Bearzot dell'Inter dei record e del Napoli di Maradona. Aneddoti curiosi ed unici, provenienti da dentro lo spogliatoio, come se lui ci fosse stato sul serio.

Racconti delle leggende del passato: dichiarazione d'amore per un calcio che non c'è più?
Assolutamente no, non c'è alcun tipo di nostalgia canaglia dietro alla mia opera. Più semplicemente, ritengo che per capire a fondo le cose, i fatti storici e sportivi, sia necessario che passi il tempo: lo straordinario Barcellona di Guardiola, per esempio, lo comprenderemo al meglio solo tra qualche anno, perché le storie diventano leggenda quando sono tramandate. Inoltre, la mia è una visione molto scanzonata, non rimpiango il calcio di ieri e non condanno quello di oggi: il calcio è l'espressione del paese e del momento storico che stiamo attraversando. Tendiamo a dimenticarci che in passato negli stadi c'era molta più violenza, si sparava, c'erano le cariche della polizia a cavallo, c'erano le scommesse clandestine e c'era la corruzione. Ogni epoca ha le sue luci e le sue ombre: ecco perché la mia è una visione leggendaria, ma non nostalgica.

C'è qualche elemento autobiografico e personale, nel romanzo? A cosa è dovuto il titolo, così particolare?
C'è il nome di uno dei protagonisti, Diego, che si chiama come mio figlio, e ci sono tutte le storie narrate dal Vecchio, che sono gli aneddoti che nel corso degli anni mi sono stati raccontati dagli ex calciatori e dagli addetti ai lavori. Per scoprire il significato ed il perché del titolo, invece, bisogna leggere il libro fino all'ultima pagina: si può comprendere solo leggendo.

Il suo libro conferma che il calcio è una parte importante nella vita degli italiani. Tuttavia, a differenza di altre nazioni, come negli Usa che producono centinaia di film sullo sport, sembra che ancora faccia fatica ad entrare nella cultura del Paese. È d'accordo?
Da una parte, credo che l'assenza di una filmografia di livello sia dovuta al fatto che il calcio è uno sport molto difficile da riprendere, dal punto di vista prettamente visivo. Dall'altra, è innegabile la presenza di un atteggiamento un po' snobista nei suoi riguardi, sul piano culturale. È a mio avviso un errore. Il calcio, piaccia o meno, è l'espressione della nazione: storie sensazionali, di grandi speranze e grandi difficoltà, proprio come l'Italia di oggi. Per questo, la storia sportiva, del calcio in particolare, sarebbe da insegnare come materia nelle scuole, fin dalle elementari: sono messaggi semplici, che arrivano ai nostri giovani, i quali così non si limiterebbero a studiare ed imparare le discipline dal punto di vista fisico ed agonistico, ma apprenderebbero anche nozioni riguardanti una parte della storia del nostro Paese.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:11