domenica 13 maggio 2012
Fabio Caressa, il più noto telecronista sportivo d'Italia,
inconfondibile voce del calcio su Sky, il quale, dopo aver scritto
un libro sul mondiale del 2006 ed uno sul poker, pubblica ora il
suo primo romanzo: «Gli Angeli non vanno mai in Fuorigioco» (2012,
edizioni Mondadori, collana Strade Blu). Finora avevamo conosciuto
il telecronista e l'autore di libri squisitamente sportivi, oggi
troviamo Fabio Caressa il romanziere.
È l'inizio di una nuova carriera?
Non mi considero uno scrittore, ma ritengo che, quando si
hanno delle storie da raccontare, sia giusto raccontarle. Non so se
si tratta del primo di una serie di romanzi, come sempre sarà il
pubblico a decretare se sono riuscito nel mio intento: se questo
libro piacerà, potrei decidere di scrivere ancora.
Come nasce quest'opera?
Questo libro nasce perché la Mondadori, qualche tempo fa,
mi aveva chiesto di scrivere un libro sul calcio, non un volume
sportivo in sé, ma un romanzo sull'idea del calcio tramandata di
padre in figlio, come dialogo tra generazioni differenti. Al giorno
d'oggi, il calcio è uno dei pochi elementi che sopravvive allo
steccato nei rapporti tra padri e figli: il genitore è colui che
porta il bambino allo stadio, o generalmente funziona così. Il
calcio funge così come punto di contatto fondamentale tra
generazioni diverse, viene trasmesso di padre in figlio, anche
attraverso l'amore per la squadra del cuore. Un ponte tra le
generazioni, sempre prodotto del momento che si vive e del paese
che lo genera.
Cosa racconta «Gli Angeli non vanno mai in
Fuorigioco»?
Il libro narra la storia di cinque amici, capitanati da
Diego, tredicenne appassionato di calcio, durante un'estate
trascorsa in vacanza a Villalago, piccolo paese in Abruzzo. Tra una
partitella e l'altra, i ragazzi si imbattono casualmente in un
Vecchio, personaggio misterioso, burbero solo apparentemente, che
parlerà loro di calcio, dei suoi miti e delle sue leggende, alla
scoperta di un mondo a loro sconosciuto: racconterà loro, ed anche
ai loro genitori, della Lazio del '74 di Chinaglia e Maestrelli,
della Roma di Liedholm e Falcào, del Milan di Sacchi e Van Basten,
della Juve del Trap e di Platini, dell'Italia di Bearzot dell'Inter
dei record e del Napoli di Maradona. Aneddoti curiosi ed
unici, provenienti da dentro lo spogliatoio, come se lui ci fosse
stato sul serio.
Racconti delle leggende del passato: dichiarazione
d'amore per un calcio che non c'è più?
Assolutamente no, non c'è alcun tipo di nostalgia canaglia
dietro alla mia opera. Più semplicemente, ritengo che per capire a
fondo le cose, i fatti storici e sportivi, sia necessario che passi
il tempo: lo straordinario Barcellona di Guardiola, per esempio, lo
comprenderemo al meglio solo tra qualche anno, perché le storie
diventano leggenda quando sono tramandate. Inoltre, la mia è una
visione molto scanzonata, non rimpiango il calcio di ieri e non
condanno quello di oggi: il calcio è l'espressione del paese e del
momento storico che stiamo attraversando. Tendiamo a
dimenticarci che in passato negli stadi c'era molta più violenza,
si sparava, c'erano le cariche della polizia a cavallo, c'erano le
scommesse clandestine e c'era la corruzione. Ogni epoca ha le sue
luci e le sue ombre: ecco perché la mia è una visione leggendaria,
ma non nostalgica.
C'è qualche elemento autobiografico e personale, nel
romanzo? A cosa è dovuto il titolo, così particolare?
C'è il nome di uno dei protagonisti, Diego, che si chiama
come mio figlio, e ci sono tutte le storie narrate dal Vecchio, che
sono gli aneddoti che nel corso degli anni mi sono stati raccontati
dagli ex calciatori e dagli addetti ai lavori. Per scoprire il
significato ed il perché del titolo, invece, bisogna leggere il
libro fino all'ultima pagina: si può comprendere solo leggendo.
Il suo libro conferma che il calcio è una parte
importante nella vita degli italiani. Tuttavia, a differenza di
altre nazioni, come negli Usa che producono centinaia di film sullo
sport, sembra che ancora faccia fatica ad entrare nella cultura del
Paese. È d'accordo?
Da una parte, credo che l'assenza di una filmografia di
livello sia dovuta al fatto che il calcio è uno sport molto
difficile da riprendere, dal punto di vista prettamente visivo.
Dall'altra, è innegabile la presenza di un atteggiamento un po'
snobista nei suoi riguardi, sul piano culturale. È a mio avviso un
errore. Il calcio, piaccia o meno, è l'espressione della nazione:
storie sensazionali, di grandi speranze e grandi difficoltà,
proprio come l'Italia di oggi. Per questo, la storia sportiva, del
calcio in particolare, sarebbe da insegnare come materia nelle
scuole, fin dalle elementari: sono messaggi semplici, che arrivano
ai nostri giovani, i quali così non si limiterebbero a studiare ed
imparare le discipline dal punto di vista fisico ed agonistico, ma
apprenderebbero anche nozioni riguardanti una parte della storia
del nostro Paese.
di Cristiano Bosco