Il 7 aprile e il (triste) anniversario della Repubblica giudiziaria

Quarantadue anni fa, il 7 aprile del 1979, decine di militanti dell’area dell’Autonomia operaia furono arrestati, accusati di mezzo Codice penale, in forza di ben due mandati di cattura emessi sulla base delle indagini svolte dai magistrati Pietro Calogero ed Achille Gallucci. L’accusa – il Teorema Calogero, appunto – era di aver costituito una sorta di Spectre della sovversione che avrebbe diretto, più o meno occultamente, ognuna delle formazioni armate che in quegli anni scorrazzavano per il Paese.

Toni Negri, ritenuto il lider maximo di quell’area antagonista, ebbe l’onore – si fa per dire – di vedersi contestato per la prima volta nella storia repubblicana il delitto di cui all’articolo 284 del Codice penale (insurrezione armata contro i poteri dello Stato). Perché rivangare vicende tanto lontane nel tempo? Perché quel giorno di primavera ormai lontanissimo nacque la Repubblica giudiziaria, che tanto bene avremmo imparato a conoscere negli anni successivi.

L’Armageddon ricalcò fin dall’esordio un canovaccio ben definito: tesi d’accusa spacciate per verità rivelate, improbabili “pentiti” a suffragarle, i giornali a fare da grancassa (l’Unità si distinse nel distillare, giorno per giorno, le notizie che cortesemente venivano recapitata in redazione dagli uffici giudiziari), l’(ab)uso della custodia cautelare, le carceri speciali, la criminalizzazione del ruolo del difensore (nelle vicende giudiziarie che seguirono furono tutt’altro che occasionali le carcerazioni degli avvocati).

A rileggere oggi certe accuse verrebbe da sorridere, se non ci fossero di mezzo decine di vite spezzate e una prassi giudiziaria ormai diventata routine: Toni Negri sarebbe stato una sorta di jolly dell’insurrezione, capace, secondo i Pubblici ministeri, di spaziare dal ruolo di teorico massimo della lotta armata a quelli di telefonista delle Brigate Rosse e distillatore artigianale di bottiglie molotov. Sotto un profilo squisitamente giuridico, il Teorema Calogero si connaturava per una generalizzata lettura estensiva in malam partem delle norme incriminatrici, la quale certamente costituì la prova generale della “legislazione d’emergenza” che negli anni successivi avrebbe connotato, e ancora oggi connota, il nostro sistema penale.

Perfino lo spezzettamento dell’inchiesta in tre distinti processi fu l’esordio di una pratica di annichilimento delle garanzie difensive tutt’oggi, con grande disinvoltura, praticata. Secondo un copione che oggi ben conosciamo, la montagna accusatoria partorì il topolino. Dopo quasi dieci anni di processo però, nel sostanziale silenzio di quella stessa informazione che aveva sbattuto il “mostro” in prima pagina, al prezzo di decine di esistenze umane ormai irrimediabilmente perdute.

Sullo sfondo, il Partito Comunista italiano ad occhieggiare interessato (anzi, secondo i maligni, a farsi addirittura suggeritore occulto) che da allora cominciò a coltivare, accanto alla risalente pratica stalinista dell’eliminazione dell’avversario per via poliziesca, una sorta di maccartismo venato di giustizialismo paranoide; pulsioni autoritarie dalle quali gli eredi di Botteghe Oscure paiono a tutt’oggi ben lungi dall’affrancarsi. Nacque quindi a Sinistra, e assai prima di Tangentopoli (della quale non è tuttavia difficile scorgere nelle vicende padovane una sorta di prova generale) il collateralismo con le Procure, nell’ambito del quale l’azione del Pubblico ministero si fa squisitamente politica ed al tempo stesso riceve legittimazione dalla Politica.

Per chi volesse saperne di più – si perdoni l’accademica tentazione bibliografica – si consiglia la lettura di Luigi Ferrajoli, “Il Teorema Calogero: trame e puntelli” in “Critica del Diritto” numero 23/24, i report che Amnesty International dedicò alla vicenda in discorso tra il 1983 e il 1988 o, per una lettura più “giornalistica” Giorgio Bocca, “Il caso 7 aprile”, per i tipi di Feltrinelli.

Veniamo all’oggi, e alla lunga notte iniziata in quella stagione ormai lontana, e che ancora non vede l’alba, dal momento che la tendenza a legittimare chi imposta indagini per dimostrare teoremi più che reati si è addirittura consolidata, con evidenti, quanto nefasti, effetti non solo per il sistema giudiziario, ma addirittura per la tenuta democratica del Paese. Contesti e meccanismi sono sempre i soliti e ormai ben rodati: l’indagine da sganciare contro il “nemico” di turno, con il circo mediatico-giudiziario che la trasforma in arma letale. Del resto, il gioco è facile. Bastano (non c’era bisogno di Luca Palamara per scoprirlo) un procuratore ambizioso e spregiudicato, un giornale che si abbeveri, senza far troppo caso a ciò che ingurgita, alla fonte giudiziaria e un partito che trasformi i pizzini delle procure in demonizzanti battaglie politiche.

Occorre, pertanto, in questo anniversario, spogliarsi di ogni ipocrisia. La politica italiana è ostaggio del giustizialismo da oltre quarant’anni, un periodo – talvolta sarebbe bene rammentarlo alle anime belle della “Costituzione più bella del mondo” – lungo più del doppio rispetto a quello della dittatura fascista. Questa pervicace, quanto ben coordinata, azione del sistema mediatico-giudiziario ha, da un lato, impedito, e continua ed impedire, il naturale succedersi fra vecchi e nuovi equilibri politici e, dall’altro, diffuso una diffidenza profonda – tutta italiana – nei confronti della democrazia rappresentativa.

Pare giunto, quindi, il tempo di mettere a tema il problema costituito dall’indigeribile impasto fatto di politicizzazione di una parte della magistratura, subalternità della politica all’azione delle Procure e trasformazione della magistratura in soggetto schiettamente politico. Ne va della nostra Democrazia. Resta un dubbio sullo sfondo: chissà se Pietro Calogero, in quell’ormai lontanissimo 1979, avesse piena contezza dell’Acheronte che si stava apprestando a farci guadare.

(*) Tratto dal blog della Fondazione Einaudi

Aggiornato il 08 aprile 2021 alle ore 11:42