Via Crucis tra le macerie

Da quel maledetto agosto 2016 (mese nel quale prese il via una serie di devastanti scosse telluriche che colpì il centro Italia) si sono avvicendati quattro Governi (Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2) ed altrettanti commissari straordinari per il sisma (Errani, De Micheli, Farabollini e oggi Legnini). Eppure, in quello che viene definito “cratere”, per parlare di ricostruzione e conseguente rinascita c’è da fare ancora molto: anzi, per meglio dire tanto, quasi tutto.

Quelle popolazioni hanno ancora in mente frasi del tipo “non vi lasceremo mai soli” che, in quelle zone di Lazio, Abruzzo, Umbria e Marche, è stato uno slogan usato (e abusato) praticamente da tutti, ma i frutti di quell’impegno – a distanza di quasi quattro anni dall’inizio di quei drammatici eventi – non se ne vedono e la solitudine di quella gente è anzi ogni giorno che passa sempre più asfissiante.

L’immagine del Vescovo di Rieti Domenico Pompili che lo scorso venerdì di Pasqua ha compiuto una Via Crucis “in solitaria” tra le strade e le macerie di Amatrice ha avuto il merito di tenere accesi con forza i fari sulla dura realtà delle zone terremotate dell’Italia centrale. Lì dove, ancora e dopo quasi quattro anni, ci sono ancora addirittura macerie da rimuovere.

E proprio quando alcuni cantieri erano riusciti a dare la sensazione dell’avvio di una ricostruzione, è arrivato il Covid-19 che ha di fatto bloccato quel poco che iniziava a dare una speranza di rinascita. La croce portata dal vescovo è passata nel suo tragitto anche vicino alle Sae, quelle strutture abitative di emergenza che, ogni anno che passa, sembrano essere sempre più destinate ad abitazioni semi-definitive. In quelle casette prefabbricate, in questo periodo, gli amatriciani stanno trascorrendo la loro “detenzione” dovuta al virus: dramma su dramma. Casette che, ha detto Pompili, “al tempo del Coronavirus stanno diventando ancora più piccole e insostenibili”.

La croce è stata portata fino al campus scolastico costruito di recente, quasi a simboleggiare la rinascita di quei territori. Quella croce che, come ha voluto sottolineare il Vescovo Pompili, “affratella perché questa situazione di dolore avvicina le persone e fa riconoscere chi siamo, a prescindere dal censo, dalla condizione sociale, dall’orientamento politico o religioso. Una croce che connette perché si scopre che c’è una correlazione stretta non solo tra noi umani, ma anche con l’ambiente naturale entro cui siamo immersi, come pesci nell’acqua. Una croce che abbraccia perché abbiamo imparato e siamo diventati più umani quando ci siamo chinati sul dolore altrui”.

Aggiornato il 20 aprile 2020 alle ore 12:07