L’impervia ascesa della donna verso la vetta della parità

Il tema della parità non può prescindere dalle varie proposte legislative di voto alle donne nell’Italia post-risorgimentale, che naufragarono miseramente il 12 luglio 1888. Il presidente del Consiglio, Francesco Crispi, si batté contro la concessione del voto amministrativo femminile, così ragionando: “Per me la donna, regina dei cuori, padrona del genere umano finché resterà estranea alle lotte della pubblica cosa, non sarà più il tesoro delle famiglie, non sarà la provvidenza e la previdenza del marito e dei figli, se la caccerete nella politica. Sensibile ed impressionabile, come essa è, non potrebbe avere sempre la mente serena e tranquilla quando si occupasse della cosa pubblica”. E concluse: “Lasciamo o signori, lasciamo la donna ai suoi doveri domestici, non turbiamo la vita privata, non confondiamo gli interessi politici con gli interessi della famiglia”.

Nel ventesimo secolo, un timido passo per il riconoscimento del ruolo della donna nella vita istituzionale fu segnato dalla legge del 20 marzo 1910, numero 121, che ne sancì il diritto ad essere elettrice ed eleggibile nelle Camere di commercio. La successiva legge del 4 giugno 1911, numero 487 (Legge Daneo), ammise le donne a tutte le cariche e agli uffici elettivi nell’Istruzione elementare e popolare.

Nel 1912, Filippo Turati maturò un nuovo approccio alla questione, riconoscendo che nell’articolo 24 dello Statuto che proclamava l’uguaglianza civile e politica di tutti i cittadini, vi “erano soltanto in Italia, allora, più di sei milioni di donne, che la necessità economica spingeva negli impieghi, nella scuola, nel commercio, negli uffici, nelle fabbriche, e non parlava di una folla ben maggiore di contadine. Tutte queste donne erano sfruttate come gli uomini, assai peggio degli uomini; avevano i doveri, gli interessi, le lotte comuni cogli uomini: insomma – disse – sono uomini”. Turati postulò per le donne il voto politico e, in via subordinata, quello amministrativo. Il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, pur non essendo contrario in via pregiudiziale all’innovazione auspicata, preferì seguire la linea a lui più congeniale di un gradualismo riformista, in virtù del quale osservò che nel momento in cui alla donna non si erano ancora riconosciuti i diritti civili, modificando l’arretrata legislazione civile, né le era stato ancora dato il suffragio amministrativo, sarebbe stato prematuro procedere all’estensione in loro favore di quello politico Nel 1912, lo stesso Giolitti nominò una Commissione ad hoc, i cui lavori si protrassero a lungo, senza peraltro conseguire – per l’ennesima volta – alcun risultato utile in merito alla questione.

Con il Testo unico del 26 giugno 1913, fu introdotto il suffragio universale, esteso anche agli analfabeti, da cui le donne continuarono peraltro a essere escluse, né più né meno come gli infermi di mente, gli ammoniti, i falliti, i mendicanti, i delinquenti. Terminata la Prima guerra mondiale, nel corso della quale – come è noto – le donne avevano dovuto sostituire nelle fabbriche, come nei campi, i loro mariti impegnati al Fronte, non poteva eludersi il problema di una loro partecipazione alla vita attiva nella società civile, non solo in via sussidiaria, ma al pieno titolo da protagoniste optimo iure. Erano passati ben 30 anni da quando Vittorio Emanuele Orlando aveva dichiarato la sua contrarietà al suffragio femminile ma, nel discorso pronunciato alla Camera il 26 aprile 1918, annunciò di aver mutato avviso sul voto alle donne rispetto al passato, precisandone le ragioni: “Non tanto l’opinione pubblica è mutata, sono mutati i tempi: è mutata la maniera di considerare il problema”. Non condivideva le rivendicazioni del femminismo oltranzista, che “considera(va) la negazione del diritto di voto, quasi come un disconoscimento dei diritti essenziali inerenti alla personalità”. Ma in seguito all’accresciuto impiego della manodopera femminile, moltiplicatosi nel periodo bellico, gli era parso opportuno e doveroso trarne delle conseguenze anche sul piano del diritto elettorale.

Di lì a poco, venne presentato in Senato il Disegno di legge 456/1919 d’iniziativa della Camera dei deputati, che puntava all’estensione anche alle donne dei diritti relativi all’elettorato politico ed amministrativo. Con tale disegno si “riconosceva”, e dunque non si “concedeva” loro il diritto in parola. Ad ulteriore sostegno della proposta in questione, andava considerato che una nuova legge aveva innovato in tema di capacità giuridica della donna, consentendole libertà e pienezza della gestione dei propri averi, nonché l’esercizio delle professioni e della maggior parte dei pubblici uffici. Si era verificata, nel frattempo, una singolare situazione per le donne appartenenti alle province di nuova annessione, già appartenenti all’Impero austro-ungarico (Istria, Gorizia, Gradisca, Tirolo, Trento, Rovereto, Bolzano), che godevano del diritto elettorale, il quale venne loro revocato nel Regno d’Italia con il Regio decreto del 1 gennaio 1923, numero 9, in vista di un successivo provvedimento legislativo, che avrebbe uniformato la legislazione circa il diritto di voto femminile sull’intero territorio nazionale.

È singolare che dopo i numerosi conati di riforma in favore del suffragio femminile amministrativo, sia stato il regime fascista a farsene carico, mediante la legge 2125 del 22 novembre 1925, che sarebbe rimasta di fatto inattuata per il sopraggiungere delle leggi eccezionali, che abolirono le elezioni amministrative. Il contesto socio-culturale nel quale si inseriva la nuova normativa era quello di 63mila insegnanti donne e 21.400 uomini, con l’istruzione elementare gestita, per due terzi, dal gentil sesso. Alle medie, le donne rappresentavano un terzo del corpo docente; all’università, in media, si laureava in percentuale una donna ogni tre uomini.
Dopo la lunga parentesi della dittatura, il Governo nato dalla Resistenza varò un disegno di legge il primo febbraio 1945, che riconobbe l’estensione alle donne del diritto di voto.

Malgrado i tre quarti di secolo trascorsi dal riconoscimento del voto femminile, l’angelo del focolare domestico” continuò ad essere oggetto di disparità. Alle elezioni amministrative per i Comuni nella primavera del 1946, votarono 8.441.537 donne su 10.329.635; al referendum istituzionale ed al voto per l’Assemblea costituente, su 24.947.187 suffragi, 12.998.131 furono espressi dalle elettrici. Assai rilevante fu la sentenza della Corte costituzionale del 18 maggio 1960, che dichiarò incostituzionale la disposizione che escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che comportassero l’esercizio di diritti e potestà politiche. La Corte costituzionale, in tale occasione, affermò che “la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso dagli appartenenti all’uno o all’altro sesso davanti alla legge”.

In base a tale sentenza, nel 1963 le donne furono ammesse a concorrere in Magistratura, dove entrarono dall’aprile 1965. Oggi il numero delle donne che ne fanno parte (in quella ordinaria) ha superato quello degli uomini. Fondamentale, a seguire, è stata la legge costituzionale del 30 maggio 2003, numero 1, che ha stabilito: “La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Con enorme ritardo, una donna ha occupato posti rappresentativi negli organi costituzionali. La prima donna presidente della Camera dei deputati (Nilde Iotti) fu eletta il 20 giugno 1979. La prima donna ministro (Tina Anselmi) venne nominata il 30 luglio 1976. La prima presidente del Senato è stata Elisabetta Casellati (2018-2022); la prima presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia (2019-2020); la prima presidente del Consiglio è Giorgia Meloni (22 ottobre 2022). Dalle 21 elette alla Costituente, oggi il numero delle donne in Parlamento è pari a 200 (129 deputate e 71 senatrici) su 600, vale a dire un terzo dei seggi elettivi nelle due Camere, a fronte di una popolazione femminile che rappresenta quasi il 52 per cento del totale.

In ambito internazionale, il conseguimento dell’uguaglianza di genere e dell’emancipazione femminile, costituisce uno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile che gli Stati si sono prefissati di conseguire entro il 2030. Per quanto riguarda l’Italia in specie, è significativamente progredita la legislazione del lavoro, sia sotto il profilo della tutela, che della parità dei diritti e della valorizzazione della donna, il cui apporto per la crescita morale, civile ed economica del Paese, si è rivelato indispensabile e determinante. In tale ottica, sono state varate norme atte a rendere compatibili gli impegni familiari con quelli lavorativi, anche attraverso dei bonus per servizi di baby sitter, congedi per particolari contingenze. Tutto ciò premesso sotto il profilo del progresso della legislazione pubblicistica in favore del della Donna, non possiamo esimerci dall’evidenziare l’accresciuta patologia sociale che ha raggiunto il culmine nell’aberrante fenomeno del femminicidio.

Nel contesto del Basso Medioevo un ruolo straordinario per la modernità di pensiero è quello che spetta all’imperatore Federico II di Svevia, il cui Codice rappresentò una pietra miliare delle moderne legislazioni, con concezioni assai avanzate – in relazione ai tempi – per quello che riguardava la dignità della donna. Otto secoli fa esso puniva con la decapitazione chi avesse forzato la volontà di una meretrice, purché la vittima avesse denunziato la violenza entro otto giorni, salvo che in quel lasso di tempo ne fosse stata impedita. Federico II tutelava la dignità anche delle donne più disprezzate dalla società, vietando il cosiddetto “matrimonio riparatore” (istituto particolarmente diffuso nel sud Italia, sino agli anni Sessanta). Più tardi (secolo XVI) nel Regno di Napoli sarebbe stato punito con la pena di morte chi avesse abbracciato o baciato “una donna contro la sua volontà”. Nel Granducato di Toscana (articolo 298 del Codice penale) era del pari punito con la pena capitale, non solo chi avesse stuprato una donna, cioè con forza e violenza, ma anche chi avesse agito mediante blandizie fraudolente, allettamenti e promesse dolose, per consumare l’atto carnale.

Attualmente, in pieno terzo millennio, le strade delle grandi città pullulano di schiave del sesso – anche minorenni – sfruttate, malmenate, minacciate. In ultima analisi: oggi di quale civiltà progredita parliamo? Di quella tecnologica, cibernetica od economica? Non esiste civiltà se non nel senso etico della parola, poiché l’Uomo civile è colui che opera con sentimenti di solidarietà e di rispetto verso i propri simili. In questo contesto di degrado morale e civile, va collocata la provvida riforma introdotta dall’articolo 609 bis del Codice penale (modificato dalla legge 69/2019, articolo 13) che ha introdotto il cosiddetto “Codice rosso”, con la pena della reclusione dai 6 ai 12 anni (in precedenza era dai 5 ai 10 anni) per chi “con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”.

Come è noto, tuttavia a fronte della sanzione in astratto, vi è sempre una riduzione in concreto nella condanna, ed un’ulteriore mitigazione con la pena che viene scontata. Non c’è purtroppo solo la violenza sessuale, ma anche quella fisica in ambito domestico, che troppo spesso è stata considerata una tacita accettazione della condotta dell’uomo da parte della moglie o compagna, fino all’esito talvolta del femminicidio, che nel periodo da gennaio a maggio del 2023, ha già registrato l’uccisione di 45 donne, 37 delle quali nel contesto familiare. A margine di questo gravissimo fenomeno di patologia sociale, riteniamo utile e doveroso evidenziare che il diritto di cronaca è sì lo specchio della democrazia, è la voce stessa di un sistema libero; ma che il suo corretto esercizio presuppone un costante ancoraggio a regole di correttezza etica, prima ancora che di deontologia professionale, nonché delle leggi poste a salvaguardia della dignità delle persone citate. Il principale quadro di riferimento normativo è dato dalla legge sulla stampa, che sanziona – tra l’altro – l’utilizzazione di “stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”.

Pubblicare foto “choc”, ad esempio, non rientra nel diritto di cronaca, per cui rispondono del reato di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante, previsto dall’articolo 15 della legge richiamata, il direttore di un settimanale ed i giornalisti autori di un articolo corredato da riproduzioni a colori delle immagini del cadavere di una donna uccisa, cosi come rinvenuto nell’immediatezza dell’omicidio, con particolari impressionanti e raccapriccianti delle tracce sul corpo e sugli indumenti, delle nudità del corpo medesimo e delle modalità di esecuzione del delitto, tali da turbare il comune sentimento della morale e l’ordine delle famiglie.
Sono impubblicabili, in ultima analisi le foto che: feriscono la richiamata “dignità della persona”, risultano non “non essenziali” ai fini della descrizione degli avvenimenti, presentano i richiamati “particolari impressionanti e raccapriccianti”. Giustamente il Garante della Privacy ha stabilito che il giornalista è chiamato ad effettuare un vaglio particolarmente attento sull’essenzialità di una data notizia nel riportarla, allo scopo di tutelare l’evocata dignità ed evitare ingiustificate spettacolarizzazioni. Un problema che sta crescendo a dismisura nell’ambito specifico della cronaca nera, è quello della necessità o meno di indugiare in narrazioni analitiche di particolari raccapriccianti, macabri, di natura sessuale, che si accompagnano ad omicidi, rapine, stupri, ed agli atti di violenza in genere nelle più svariate forme. Alla giusta esecrazione che ne consegue da parte del comune cittadino, dotato di capacità di discernimento, si giustappone la suggestione emulativa che può insorgere in soggetti psico-labili, facilmente influenzabili o portatori di potenzialità criminali. Potenzialità queste, destinate restare allo stato latente, finché non sono stimolate nella fantasia imitativa, per dar corpo a tendenze deviate che si traducono in delittuosa concretezza.

Il problema, oggi ampliato a dismisura grazie ad una vasta gamma di mezzi di comunicazione telematica, non è peraltro nuovo, dato che anche nel periodo fascista uno storico del giornalismo scriveva: “Non diamo più soverchia importanza ai bei delitti, ai suicidi romantici, agli adulteri di lusso. Una volta una grande giornale si sarebbe creduto disonorato, se non fosse riuscito a dedicare il maggior numero di colonne, con particolari ghiotti e scandalosi, ad un assassinio d’amore o ad una scoperta truffa, trasformandosi, così, in un ‘involontaria scuola del delitto e creando la vanità persino nell’ammazzarsi, perché vi era della gente che si buttava dall’alto del Duomo, pregustando la gioia del ritratto di cronaca dei quotidiani”.

Un breve cenno va fatto oggi anche alla “sublimazione cinematografica” della cronaca nera, che può spingersi sino alla sinistra contraffazione di episodi aberranti di spietato banditismo, accreditati come avvincenti prodezze. Delinquenti privi di ogni umanità, possono così rappresentare altrettanti modelli di “miti” negativi, per balordi di ogni tipo e, soprattutto, per giovani disadattati privi di quel retroterra scolare e familiare, che dovrebbe essere la prima palestra educativa per saper distinguere tra valori e disvalori etico-sociali.

Veniamo poi alle cosiddette trasmissioni di intrattenimento, dove accanto a pettegolezzi da barberia, si specula su di un delitto, con affollamento di illustri clinici, giuristi, criminologi, esperti vari e tuttologi, che dibattono per ore ed ore su fatti e misfatti che sconvolgono l’opinione pubblica, ma al contempo ne sollecitano una sorta di inconfessabile “guardonismo mediatico”. Se un certo tipo di pubblico è morbosamente interessato alla cronaca degli stupri e dei relativi dettagli, c’è da attendersi che se ne potranno verificare degli altri per causa imitativa. Il tutto, ovviamente, senza alcun riguardo per la sensibilità degli spettatori più piccini, che all’ora di pranzo o di cena, vengono proiettati dal mondo delle fiabe, a quello di una realtà rappresentata nei suoi aspetti di più efferata e cruenta patologia. A fronte dell’inevitabile “legittimazione” di modelli negativi, che deriva da questo sistema di messaggi diseducativi, gli sceneggiatori ed i produttori cinematografici diano voce alle Vittime, leggendo le loro storie e diffondendo il loro esempio di coraggio. In atto merita di essere evidenziato il sempre maggiore impegno dello Stato a livello normativo, giudiziario ed amministrativo, per prevenire e reprimere la violenza contro le donne, perseguendo i responsabili e tutelando le vittime, sin dalla fase delle avvisaglie di una condotta aggressiva o persecutoria.

Ogni 25 novembre si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne e il femminicidio, data scelta nel 1999 dall’Assemblea generale delle nazioni Unite, in memoria delle sorelle Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva, Antonia Maria Teresa Mirabal, brutalmente assassinate per ordine del dittatore dominicano Rafael Leónidas Trujillo il 25 novembre 1960. Ai nostri giorni non saranno certo delle altisonanti pene edittali a fermare questo come altri fenomeni di grave patologia sociale, bensì l’ineluttabilità di quelle sanzioni miti ma al contempo certe nel loro momento applicativo, che aveva lucidamente postulato Cesare Beccaria, oggi evidentemente dimenticato. Quello della parità effettiva, e non meramente formale, è stato un cammino in salita, faticoso, ma ciò che conta è il costante progredire verso sempre più alte vette, il cui raggiungimento a livello globale, non sarà il segno della elevazione della donna in quanto tale, ma dell’umanità intera.

Aggiornato il 13 marzo 2024 alle ore 15:02