Il lascito morale di Benedetto Croce

La vita come impegno operoso nella religione del Dovere

Dopo la tragedia del terremoto di Casamicciola (1893), dove il giovane Benedetto Croce perse genitori e la sorella, con il conseguente smarrimento nella sua vita interiore, dovette trovare in se stesso le risorse per risalire la china della depressione, traducendola in una straordinaria forza creativa di pensiero e di azione. Un tema, cui attese con particolare passione, fu quello della questione sociale, che in Italia si era andata affermando con crescente vigore al crepuscolo del secolo XIX, avvertendo il Croce in una prima fase della sua formazione l’influenza di Arturo Labriola, economista socialista, fautore del riscatto dei ceto proletario attraverso il lavoro. Nel 1910 il Croce, nominato senatore, tradusse nell’impegno politico il concetto di una vita da intendersi come continuo apprendimento, al cui cessare sopraggiungeva la morte, venendo a mancare lo spirito animatore dell’agire umano. Un passaggio fondamentale nel suo percorso interiore fu la creazione il 20 gennaio 1903 della rivista La Critica come avrebbe ricordato nel Contributo alla critica di me stesso (Napoli, 1915) – dove per sua stessa affermazione si sarebbe ritrovato a dare il meglio di sé, ed “a compiere opera di politica e di politica in senso lato, opera di studioso e di cittadino insieme, così da non arrossire del tutto, così come più volte (gli) era accaduto in passato, innanzi a uomini politici e cittadini socialmente operosi”. Non fu la sua una figura di erudito astratto dal reale, vale a dire di un autoreferenziale studioso chiuso nella sua Turris Eburnea, bensì quella di un generoso dispensatore del sapere, per renderne partecipe la collettività, così compiendo un’opera di edificazione morale e civile, indirizzata ai sempiterni valori del Bello, del Vero e del Buono.

Il suo fu un servizio reso costantemente alla cultura italiana, concependo la propria vita come una “continua educazione”, e il sapere come un’unità inscindibile fra l’apprendimento continuo e la conoscenza precedentemente acquisita. La cultura era un fattore indispensabile all’elevazione della vita morale, che doveva essere in costante simbiosi con la politica. La Filosofia – lo ribadì in più occasioni – si sarebbe rivelata infeconda se si fosse astratta dalla vita reale, approdo della finale politica. Il credo politico (fondamentalmente nelle due grandi aree del liberalismo e del socialismo) era qualcosa di saldo e di assoluto, da non confondersi con i programmi concreti nei quali doveva tradursi, necessariamente cangianti in relazione alle mutevoli condizioni concrete. L’autentico uomo di cultura si appagava solo nel momento in cui riusciva a trasmettere agli altri il frutto dei suoi studi, compiendo in tal modo un’opera di alto valore pedagogico e sociale. La sete inesauribile di conoscenza lo portò alla conclusione che “quando si è educati senza possibilità di meglio educarsi, la vita si arresta e non si chiama più vita, ma morte”.

Partendo da questi presupposti, affermò in seguito che la morte non avrebbe dovuto “coglierci nella stupidità di un ozio inoperoso”. Al termine del primo conflitto mondiale, scrisse che i regimi liberticidi soffocavano ogni forma di creatività del pensiero umano, dall’arte alla politica, alla stessa Fede. Pertanto dopo un’iniziale, guardinga adesione al fascismo, se ne discostò nettamente dedicandosi all’impegno di pensatore e di scrittore, per tenere viva la fiamma della libertà, levata in alto il 1° maggio 1925 con la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali antifascisti, che ebbe vasta risonanza anche al di fuori dei patri confini, costituendo un intenso raggio di luce nelle tenebre del totalitarismo. In quello stesso anno, Croce scrisse la Storia del Regno di Napoli, nella cui prefazione sottolineò l’inscindibile rapporto tra le storie locali e quella generale, osservando che anche nello studio delle vicende comunali “è dato vedere, come in miniatura, i tratti medesimi della storia generale”. In uno scritto del 1935, nel pieno del fascismo, affermò che non bisognava interrogarsi su “dove va il mondo”, con la conseguenza di restare immobili nel dissenso, o di avviarsi come pecorelle dietro coloro che andavano in quella direzione. Senza chiedersene il perché.

Viceversa – avvertì – “ciò che si richiede e che si ubbidisca ad una necessità morale. La quale comanda che si attenda con ogni rischio, a tutelare gli umani valori e le umane virtù, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama insomma il culto della libertà; la quale è il principio direttivo a cui sempre deve si deve far ricorso. Quale che sia lo schema di ciò verso cui il mondo va, quello schema sarà riempito da uomini e sarà reale solo nei pensieri, nei sentimenti e negli atti degli uomini, e avrà quella realtà che essi gli daranno, e tanto migliore quanto migliori quegli uomini. Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma dove bisogna che andiate voi, per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi”. Croce fu sconvolto dal bombardamento di Napoli del 4 dicembre 1942, in procinto di trasferirsi a Sorrento con la sua biblioteca, di cui in realtà riuscì a portar via solo una minima parte degli oltre 150mila volumi da cui era costituita, traendone perciò un grande dolore. Il 25 luglio 1943 cadeva il fascismo ed 15 dicembre successivo egli annotava: “Sono stato sveglio per alcune ore, tra le 2 e le 5, sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente è distrutto, irrimediabilmente. Sopravvivono solo nei nostri cuori le forze ideali con le quali dobbiamo affrontare il difficile avvenire senza più guardare indietro, frenando il rimpianto”.

Nel mezzo della Seconda guerra mondiale auspicò un’Europa da realizzarsi con “Abundantia cordis”, vale a dire “con cuore umano e cristiano”, il che significava uscire dagli egoismi e dall’indifferenza all’altrui povertà: “La moralità – affermò – si attua solo con gli uomini tutti, combattendo o collaborando con essi per la comune umanità. E solo per questa via della ognora crescente civiltà, la pace si manterrà a lungo e sempre si ristabilirà più profonda e forte”. Conclusasi l’infausta esperienza del fascismo Croce, intendendo la Storia come storia della libertà, nel 1944 esordì con il noto “Heri dicebamus, per riprenderne le fila dopo l’interruzione del Ventennio, col sostenere la necessità che ogni cittadino si iscrivesse a un partito, il che non significava abdicare al proprio sentire individuale, poiché in caso di contrasto con la propria coscienza morale, la persona aveva il diritto ed il dovere di uscire dal partito prescelto.

Croce ebbe un ruolo di primo piano nella redazione della nostra Costituzione, cogliendo le sintonie e la piena compatibilità tra il pensiero liberale e la fede cristiana “dei quali – disse – “ben conosco la diversità nel principio direttivo”, ma che potevano “nel presente e per un non breve avvenire, cooperare – in virtù delle comuni origini nella civiltà romana ed occidentale – alla difesa contro un comune pericolo, che prende nome di materialismo storico o etico che sia, e che minaccia entrambi, minaccia la spiritualità laica dell’uno e la spiritualità confessionale dell’altro, e mira ad abbattere prima quella e poi questa, o prima questa e poi quella”. Il 12 dicembre 1944 annotò: “Stanotte mi sono svegliato prima delle quattro... e ho sempre meditato sulle condizioni gravissime e quasi disperate dell’Italia. Per fortuna, quando mi rimetto in piedi e ripiglio il qualsiasi lavoro, l’avvilimento è vinto e quasi dimenticato. Così sperimento in me, quotidianamente, che “l’opera è tutto. Servire Domino in laetitia, se è possibile, e andare innanzi animosamente”. Quello dell’operosità costante, in qualunque condizione, fu il principio guida dell’intera esistenza del Maestro, che nel discorso all’Assemblea Costituente dell’11 marzo 1947, terminò con la nota invocazione “Veni creator Spiritus, mentes tuorum visita, accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus”. La concezione della “politica” che costantemente lo ispirò, si riallacciava alla tradizione greco-romana, che la aveva concepita come educazione etica al perseguimento di finalità generali di bene comune, vale a dire di libertà. Pertanto la politica che se ne fosse discostata, era destinata nel corso della storia a rivelarsi di corto respiro, potendosi solo in casi eccezionali prescindere dall’etica, ove ciò fosse risultato indispensabile per conseguire degli obiettivi di utilità generale altrimenti irraggiungibili. La libertà, quale sintesi di forze morali “non risorge(va) in perpetuo con perenne giovinezza”, perché in realtà non moriva mai e le sue morti erano meramente apparenti.

I regimi che la contrastavano con violenze ed oppressioni, erano pertanto avviati ad essere sconfitti nel corso del tempo. Anche nella dimensione individuale, ogni uomo che viveva all’interno della polis (cioè dello Stato), qualunque fosse il suo ruolo socialmente attivo, in ragione della sua dimensione relazionale con i propri simili, andava definito “uomo politico” in senso lato, ovvero uomo sociale, nella sintesi tra etica (dimensione spirituale) e vita economico-politica (dimensione fisica). A ciascuno, nel proprio ambito, era dato concorrere alla promozione della Res pubblica. Il contrasto tra vita contemplativa ed attiva, era solo apparente, ove si tenesse a mente l’insegnamento di Aristotele, per il quale non erano pratiche solo le azioni concrete, ma anche le riflessioni che, educando la mente, preparavano al ben operare (euprassia). L’uomo morale – affermerà nuovamente il Croce – è il Vir bonus agendi peritus, chiamato ad operare nel quotidiano sorretto da una retta coscienza che ne ispirava l’agire concreto, perseguendo i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento.

La vita morale abbracciava indistintamente tutti gli uomini di governo e di opposizione, se persone di buona volontà e miranti alla nobile causa del progresso dei cittadini, in un’armoniosa “concordia discorde”, che era il sale della democrazia e la distingueva dai sistemi totalitari. Nell’affrontare il tema della morte, senza il conforto della fede giovanile, venutagli meno dopo le ricordate perdite negli affetti più cari – Croce lasciò ai posteri un insegnamento di rara suggestione, affermando che la preparazione ad essa morte “è intesa da taluni come un necessario raccoglimento della nostra anima in Dio; ma anche qui occorre osservare che con Dio siamo e dobbiamo essere in contatto in tutta la vitae niente di straordinario ora accade che ci imponga una pratica inconsueta. Le anime pie di solito non la pensano così e si affannano a propiziarsi Dio con una serie di atti che dovrebbero correggere l’ordinario egoismo della loro vita precedente, e che invece sono l’espressione ultima di questo egoismo”; ma essa non può far altro che così interromperci, come noi non osiamo far altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare”. L’eredità morale trasmessa dal filosofo napoletano ai posteri, è ancora più preziosa oggi, innanzi al desolante scadimento del costume politico nella forma come nella sostanza, con l’inaccettabile divaricazione tra azione politica ed azione morale.

La conseguenza che si dovrebbe accettare è il crudo schema del Machiavelli, teorizzante una Ragion di Stato, in ossequio alla quale il fine giustificherebbe i mezzi (purché – si badi bene – almeno il fine sia di utilità pubblica e non di tornaconto personale). Non può del pari sostenersi che possa professarsi una morale pubblica antitetica a quella privata: l’Uomo morale è un tutt’uno inscindibile nella sua persona, senza cinici alibi di necessità storiche o di realismo politico. Con profetica preveggenza Croce esortò alla condivisione del benessere e della libertà, senza la qual condivisione i diseredati si sarebbero giustamente ribellati, riversandosi come masse sconvolte nei Paesi economicamente avanzati, della qual lungimirante previsione gli attuali flussi di un’umanità disperata proveniente dall’Africa rappresenta la drammatica conferma. Croce identificò i valori supremi nella nota triade del Vero, del Bello e del Buono, cui volle aggiungere la categoria dell’Utile, coincidente con l’Economia.

La Filosofia (o Logica) consistente nella ricerca del Vero, non era mai definitiva – al pari della vita – per cui era appropriato riferendosi ai problemi che essa aveva affrontato nel tempo, considerarla non un “sistema”, bensì un insieme di “sistemazioni”, vale a dire di “catalogazioni” in continuo divenire, quindi sempre cangianti verso nuovi traguardi di conoscenza. “La verità – scrisse al riguardo – non si lascia cogliere una volta per tutte”. L’attività pratica dello spirito si orientava in due differenti dimensioni: l’Azione (mirante all’utile ed oggetto della scienza economica); la Volontà (mirante al bene ed oggetto dell’etica). Procedendo nelle partizioni definitorie, l’Estetica era la ricerca del Bello, sfera del sentimento, che si manifesta in varie forme: musica, poesia, pittura, scultura, letteratura. Attraverso la rappresentazione artistica l’uomo si rendeva partecipe dell’Universo, il che comportava la riconoscibilità del suo sentire dovunque e da chiunque, sicché era trascesa la dimensione individuale, verso una più ampia condivisione globale.

Nel campo letterario, anche le traduzioni assurgevano a dignità artistica, in quanto realizzavano altrettante creazioni e, quindi, opere originali, accomunate al testo “prototipo” dalla trama, dai nomi dei protagonisti e dagli oggetti. L’originalità di una traduzione che si evince dalla riflessione crociana, consiste non certo nella pedissequa trasposizione di un testo da una lingua all’altra, quanto dalla capacità del traduttore di saper mantenere inalterata la “ratio” nel nuovo idioma, suscitando così nel lettore i medesimi sentimenti scaturenti dall’originale, rispetto al quale costituisce un quid novi legato alla sensibilità individuale dell’interprete. La ricerca del Buono, si identificava nell’Etica; ma siffatte distinzioni si raccordano tutte nell’uomo, che non è necessariamente limitato da alcuna di esse, ma che tutte le può compendiare, così rivelandosi – al contempo – soggetto morale, economico, filosofico ed artistico. In Croce “un’arte” meramente descrittiva non merita di definirsi tale, in quanto deve – viceversa – essere espressiva di sentimenti catartici (gioiosi o dolorosi), in grado di elevare lo spirito, così da assurgere ad una dimensione universale. Le quattro categorie menzionate, non sono pariordinate, poiché nella concezione crociana il ruolo preminente compete all’etica, in quanto “potenza unificatrice dello spirito”, che tuttavia non tiranneggia le altre, rispettandone l’intrinseca autonomia.

Importante è nella teorizzazione del filosofo napoletano, il concetto della “Politica” – ben diverso dalla deformazione negativa raggiunta ai nostri giorni – consistente nell’ardente passione per la società in genere e per la Patria in particolare. “La vera azione politica – scrisse – richiede sempre di tirarsi fuori dai partiti per affissare, sopra di essi, unicamente la salute della Patria”. La sua più assoluta indipendenza di pensiero si confermò anche quando, divenuto capo del partito liberale, alla vigilia del varo del governo Bonomi nel 1944, informò Sforza di aver detto agli amici liberali: “Non vi dolete se io, sempre che ciò creda utile al nostro Paese, propongo e sostengo persone di diversi partiti per uffici nei quali penso che possano fare meglio di altri”. La fede politica stava ai programmi come le fondamenta ad un edificio, avendo sempre come ineludibile cornice di riferimento la morale, che rifuggiva da ogni degenerazione statolatrica. Il Croce aborrì l’atteggiamento servile degli uomini di cultura (l’esperienza fascista era stata maestra al riguardo) verso il Potere, così come lo sterile estraniarsi dalla vita civile per mantenersi incontaminati.

Egli fu un convinto europeista, sostenendo che la realizzazione auspicata di un’Europa unita, non avrebbe comportato di dover rinnegare la pregressa appartenenza alle “piccole Patrie”, che sarebbero state meglio amate nel nuovo contesto unitario, superando ogni suggestione nazionalistica. Il liberalismo come religione della libertà, non era necessariamente simbiotico con il sistema economico del liberismo (del che è oggi riprova concreta la Cina post-maoista, dove il sistema politico dirigistico di matrice comunista, coesiste con l’economia di mercato). Anche i partiti, chiamati ad operare nella realtà contingente, potevano discostarsi dai loro programmi teorici, per cui un liberale poteva trovarsi nella necessità di nazionalizzare dei servizi essenziali, e – per contro – un socialista, di dover privatizzare, rifuggendo da quel fanatismo ideologico che era in contrasto sia con la razionalità, che con la coscienza morale.

Ciò valeva anche per il laicismo che – tenne a precisare” è, al contrario, lotta ad ogni intransigenza ed apertura al libero confronto delle idee”. La lezione crociana sulla libertà abbracciò, naturalmente, anche il settore della cultura, nel qual ambito nessuna istituzioneuniversità compresa – poteva arrogarsene il monopolio. In estrema sintesi, la cultura laica era quella che rifuggiva da condizionamenti di tipo religioso, politico accademico, scolastico, o consortile (si riferiva in particolare alla Massoneria). Laico significava “libero” da qualsivoglia appartenenza o limitazione del libero arbitrio, dovendo in ultima analisi affermarsi quel primato della coscienza, nel quale è dato ravvisare una singolare sintonia con il pensiero di sant’Ignazio di Loyola. La laicità di Croce non gli impedì – alla luce del pensiero per sommi capi evidenziato – di riconoscere” la “intima religiosità e la sostanziale continuità con l’ispirazione ed i valori della religione più propria della tradizione europea, cioè il Cristianesimo”, senza che egli giungesse alla teorizzazione manzoniana di un liberalismo cattolico, in quanto ritenne razionalmente incompatibili le due concezioni.

Ancor più incompatibile con l’idea liberale era – naturalmente – il dogmatismo marxista, antitetico al concetto di autodeterminazione nella libertà, seppur coincidendo nella comune finalità dell’ascesa sociale della classe lavoratrice. Il Partito liberale, esaurita nel secolo XIX la sua funzione storica per il trionfo della libertà, ed in particolare di quella di coscienza, poteva anche estinguersi come organizzazione istituzionale, senza che con ciò venisse ad estinguersi anche l’idea di libertà che ne era stata ispiratrice, compatibile con qualsivoglia sistema economico-sociale. Soggetto della storia era il Popolo, comprendente anche i suoi reggitori, nella dimensione della nazione, preesistente all’assetto giuridico dello Stato. La vita fu per lui un impegno assiduo nel lavoro, nella laica religione del Dovere, per cui ogni qualvolta aveva raggiunto un obiettivo, esso era non il traguardo, ma una tappa verso quello successivo, anche perché – come ricordato – la Morte non lo avesse sorpreso nella stupidità di un ozio inoperoso. Il messaggio ideale che le nuove generazioni possono recepire dall’esempio di Croce, è che la vita merita di essere vissuta nella costante gratificazione di un’utilità resa al prossimo, e quindi a se stessi. La dimensione della relazione virtuale, viceversa, è l’abbandonarsi ad un mero scorrere del tempo: è un vuoto “esistere”, ma non è un “vivere “nel senso pieno che esso richiede”.

Aggiornato il 08 febbraio 2024 alle ore 15:03