Autocrazie di successo, la seconda Guerra fredda

C’era una volta l’America. Molti si chiedono se questo non sia il secolo del definitivo declino della potenza americana nel mondo, destinato a lasciare il passo a regimi autocratici come quello russo e cinese. Di sicuro, il clima che si respira ha non poche affinità con lo scontro ideologico Usa-Urss che ebbe come terreno di scontro l’ideologia e la corsa agli armamenti, nell’ottica di reciproca deterrenza.

Tuttavia la Cortina di Ferro, che divise i Paesi comunisti del socialismo reale dalle democrazie dell’Ovest, non è oggi più riproponibile in termini di faglia fisica, dato che il flusso degli scambi della globalizzazione non può in alcun modo essere diviso a metà. Per capire oggi che cosa accade lungo il perimetro e all’interno del triangolo Russia-Cina-America, occorre fare il punto dei rispettivi rapporti bilaterali e delle loro possibili configurazioni e combinazioni.

Attualmente, le apparenze ci dicono che da un lato si colloca la strana coppia Mosca-Pechino, e dall’altra Washington con i suoi alleati. Anche qui: su quali veri amici può contare Joe Biden? L’Unione europea, che ha appena firmato un accordo di libero scambio con la Cina, pochi giorni prima dell’insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente Usa? O l’Australia e l’India che hanno colossali interessi di interscambio con la Cina e tutto da perdere nel caso di una drastica scelta di campo? E quanti dei Paesi dell’Unione si schiererebbero senza esitazione con l’America, avendo per lo più ottimi rapporti con Mosca e Pechino?

Iniziando dalla Russia e dalla raffinata analisi (“Fresh sancions may barely dent fortress Russia”) che ne fa il Financial Times, è utile andare a guardare più da vicino le armi spuntate delle democrazie nei confronti delle autocrazie, che hanno avuto migliori performance sia economiche che sanitarie in questi tempi di pandemia. Non avendo più corso la forza militare per imporre il rispetto del diritto internazionale, l’Occidente, a seguito dell’annessione russa della Crimea, decise di imporre severe sanzioni a una Nazione già stremata economicamente dal crollo verticale del prezzo del petrolio in quell’anno 2014.

Ebbene, osserva il quotidiano inglese, almeno sotto un aspetto cruciale le sanzioni si sono rivelate un boomerang, andando addirittura a rafforzare il potere autocratico di Vladimir Putin che, da allora, ha adottato una politica macroeconomica di indubbio successo. Ne consegue che, mentre molti Stati sviluppati faticano a riprendersi dalla crisi socio-economica generata dalla pandemia, Mosca ne esce fuori stabile e rafforzata, grazie a una abile conduzione budgetaria e valutaria. Infatti, all’inizio dell’emergenza Covid-19, la Russia vantava il più basso indebitamento (14 per cento del Pil) tra le 20 economie mondiali più sviluppate, nonché il più elevato avanzo di gestione e si trovava al quarto posto nel mondo, sia per l’avanzo delle partite correnti, che per la quantità di riserve in valuta estera (aumentate dai 350 miliardi di dollari del 2015 agli attuali 580).

Sette anni di ferrea politica monetaria hanno contribuito a tenere sotto controllo l’inflazione, consentendo oggi alla Banca centrale russa un ampio margine di manovra per la riduzione dei tassi di interesse e per sostenere la spesa pubblica in deficit. Rispetto alle altre economie occidentali, gli interventi del Governo e dell’Autorità monetaria russi sono stati moderatamente limitati, a fronte di un modesto calo del Pil del 3,5 per cento nel 2020. Anche l’indebitamento nei confronti con l’estero è piuttosto basso (pari al 10 per cento delle attuali riserve monetarie, contro il 30 per cento delle altre economie emergenti).

Secondo un sano criterio economico, il Governo russo incamera i profitti quando risalgono i prezzi delle materie prime e aumenta la spesa interna quando i prezzi scendono, stabilizzando così l’economia e il rublo, che mostra una più elevata resilienza rispetto alle monete di altri Paesi occidentali esportatori di petrolio. Per di più, i russi hanno fatto fronte all’embargo sull’importazione di beni alimentari, aumentando significativamente la produzione agricola interna, in modo da ridurre la dipendenza dall’estero. Al pari della Cina, la Russia ha favorito i suoi campioni digitali di Internet, erigendo vere e proprie barriere informatiche per proteggerli dalla concorrenza esterna.

Andrebbe tutto bene, se alle misure difensive si fossero abbinate quelle economicamente espansive, cosa che non è accaduta e la Russia ha perduto il suo posto tra le dieci economie più sviluppate del mondo. Malgrado tutto, nonostante la corruzione dilagante e i bassi standard della qualità della vita, la maggior parte dei cittadini russi pensa che il proprio Paese si stia muovendo più nella direzione giusta che in quella sbagliata. Se la Fortezza Russia resterà stabile, allora avrà ottime possibilità di sopravvivenza nell’era post-Covid, che vedrà una progressiva de-globalizzazione associata a una elevata inflazione, in corrispondenza del raffreddamento del Pil mondiale e a un ben maggiore sviluppo delle tecnologie digitali a livello locale.

Per il futuro, c’è da chiedersi: il riavvicinamento tra Mosca e Pechino avrà una portata tattica limitata o, viceversa, strategica sul piano politico-militare, considerato che il Pil russo vale appena l’1,7 per cento di quello mondiale, contro il 18,2 per cento della Cina? E come si confronteranno i due nazionalismi rafforzati dalla debolezza dell’Occidente quando, inevitabilmente, si tratterà di rimettere mano alla questione frontaliera delle aree siberiane (tra cui primeggia Vladivostok!) nella regione fluviale dell’Amur, acquisite dalla Russia in base al Trattato ingiusto (dal punto di vista cinese) dell’accordo sulle frontiere del 1858? Partita, come si vede, tutta da giocare, a partire dalle possibili combinazioni del famoso detto “il nemico del mio nemico è il mio miglior amico”.

 

Aggiornato il 01 aprile 2021 alle ore 11:25