Giovani Draghi cercasi cum grano “Salis”

Che cos’è la “pericolosa ossessione della competitività”, come ebbe a definirla nel 1994 il futuro Premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman? Il concetto lo ha ben spiegato Mario Draghi il 16 aprile scorso, nell’ambito del suo intervento alla Conferenza a La Hulpe sui diritti sociali nella Ue. Secondo Krugman, la crescita a lungo termine deriva dall’aumento della produttività, che avvantaggia tutti, al contrario della strategia di farsi concorrenza sleale per migliorare la propria posizione relativa rispetto agli altri, sottraendo loro significative quote di crescita. Quindi, la competitività non è più “fair” (leale) se il notevole, minor costo di un determinato bene sui mercati internazionali è la conseguenza di forti aiuti di Stato, del monopolio di materie prime estere e di condizioni di lavoro significativamente inferiori agli standard di sicurezza degli altri competitor mondiali.

L’analisi di Krugman era quanto mai lucida e preveggente, visto quello che è poi successo con l’attuale modello di globalizzazione, in cui grandissimi “players”, come Cina e Stati Uniti, giocano per conto proprio, non rispettando per primi le regole comuni sulla libera concorrenza tra imprese. E ciò accade grazie proprio alla elevata mole di sussidi pubblici, che Pechino e Washington immettono per migliaia di miliardi di dollari e di yuan nel loro sistema economico-produttivo. Con particolare riferimento alle tecnologie green, in cui la Cina vanta una iperproduzione che rischia di sommergere, con il suo sistematico dumping, l’analogo settore europeo.

Ora, però, i nani non servono per fronteggiare i giganti, e la Ue, malgrado sia nel suo insieme uno spazio economico ricco e tecnologicamente avanzato quanto Usa e Cina, deve la sua crescente rovina proprio alla frammentazione delle sue piccole patrie, gelose dei propri sistemi nazionali di welfare e di sostegno alle imprese produttive. Oggi, sostiene Draghi a ragion veduta, le politiche dei grandi player mondiali sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre e, nel peggiore dei casi, per renderci permanentemente dipendenti da loro. È chiaro che così non si va da nessuna parte, soprattutto qualora l’America attivi una sorta di de-coupling in tema di armamenti e di “ombrello protettivo Nato”, lasciando a noi sempre più ampi margini per provvedere autonomamente alla nostra difesa comune contro nemici esterni. Che senso hanno oggi le gelosie e le divisioni infra-Ue, vista la prospettiva imminente di dovercela cavare da soli (soprattutto in Ucraina), che rimane vera in entrambi i futuri scenari post-novembre 2024, che si confermi l’attuale presidente o che vinca il suo sfidante al governo dell’Amministrazione Usa? Perché, quindi, si insiste, come sta facendo la Germania in materia di difesa europea, a sabotare la creazione di un conglomerato industriale che metta a fattor comune tutte le risorse finanziarie, tecnologiche e produttive dei Ventisette?

Berlino ha stanziato qualcosa come cento miliardi di euro in quattro anni, per cercare di rivitalizzare le sue forze armate, ridotte in condizioni riprovevoli da circa ottanta anni di pace, mettendosi di traverso alle iniziative di altri partner. Davvero è così difficile ricorrere in materia di difesa a una sorta di Recovery Fund, con l’emissione di eurobond sui mercati finanziari internazionali? Così facendo la Germania sembra non tenere conto di quanto stia accadendo nelle economie globalizzate post-Covid, in cui l’intervento massivo dei grandi Stati continentali ha alterato in profondità, e irreversibilmente, i rapporti produttivi tra le varie regioni sviluppate del mondo. Se, infatti, si adotta la strategia di alterare la catena delle forniture globali “internalizzandola” (come fa la Cina con il quasi monopolio delle terre rare e della produzione di batterie solari e auto elettriche), si hanno varie, sgradevoli ripercussioni su scala mondiale. Una di queste è, appunto, la corsa ad accaparrarsi ovunque si trovino (e a scoprirne di nuovi, devastando ulteriormente gli ecosistemi) i giacimenti di materie prime, necessarie alla costruzione dei semiconduttori.

Gli Stati Uniti, da parte loro, osserva Draghi, stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre all’interno dei propri confini capacità manifatturiere nazionali (compresa quella delle aziende europee) ad alto valore aggiunto, mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per ri-orientare e proteggere le proprie catene di approvvigionamento. Alla Ue, denuncia l’ex governatore della Bce, manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali su di un terreno di gioco globale ineguale, causato da asimmetrie nei sussidi, nelle normative e nelle politiche commerciali. Un esempio calzante è rappresentato dalle industrie ad alta intensità energetica, privilegiate in altre regioni del mondo per tariffe e oneri di legge. Importante è la “scalarità” delle grandi imprese europee, che debbono poter assumere dimensione continentale, come quelle cinesi e statunitensi. Senza azioni politiche strategicamente progettate e coordinate, è logico che alcune delle nostre industrie ridurranno la capacità produttiva o si trasferiranno al di fuori dell’Ue. Occorre quindi produrre un “pensiero alto”, che consenta all’Europa di ammodernare drasticamente i propri processi decisionali, la sua organizzazione istituzionale e, soprattutto, le sue fonti di finanziamento comune. Magari, come si è detto, autofinanziandosi adeguatamente sui mercati finanziari internazionali, mettendo a punto politiche incentivanti e sussidiate per recuperare quote importanti di mercato nei settori industriali avanzati e nella difesa. Ora, tra i candidati italiani alle Europee chi sarebbero i “Giovani Draghi”, donne e uomini, in grado di rivoluzionare le politiche dell’Unione? Forse, la maestra Ilaria Salis?

Aggiornato il 23 aprile 2024 alle ore 13:54