Roma e morte

L’altra mattina attraversavo una Roma deserta, vuota e desolata. Piazza di Spagna e la sua scalinata, tristemente vuota più del mare in inverno, diaccia, immobile al vento freddo; dal momento che per un’assurda ordinanza comunale nessuno, per la prima volta in tre secoli, si può sedere su quei gradini. E se l’attuale giunta brilla per tragicomica fertilità nel produrre geniali ordinanze sui sampietrini e altro, è ancora dilettantesca se paragonata all’operato di quello che appare come uno tra i peggiori dicasteri dell’intero corso repubblicano, quello lasciato in mano al ministro Dario Franceschini.

Da un ferrarese ci saremmo aspettati la fantasia ariostesca, l’immaginazione di De Chirico, la meravigliosa perfezione estetica di Cosmè Tura, e invece abbiamo visto aggirarsi per l’Italia, il pallido spettro del nulla e neanche di quello più assoluto. Un nulla mediocre, men che modesto, relativo. Chi dobbiamo ringraziare per questo? Non soltanto un primo ministro avulso da qualsiasi altra realtà se non quella della propria manicure, circondato da fedeli caudatari e da un ancor più incomprensibile comitato di “saggi” che ha letteralmente annichilito l’intero Paese con inutili, assurde e alla fine dannose, procedure di contenimento, ma anche il ministro dei Beni culturali, Franceschini. Turisti sparuti, impauriti e radi, vagano allora come anime purganti nelle città d’arte nostrane. A Roma ormai li conti sulle dita delle due mani e li abbracci – potendo – per confortarli, dicendo loro che ciò che vedono, soltanto un anno fa era la città più bella del mondo. Eh sì, anche sotto la giunta Raggi, ma questo non è merito suo.

Roma, Firenze, Venezia sono state ridotte a cenotafi, trasformate in sfondi teatrali dipinti che vanno man mano sbiadendo con maggior velocità in queste settimane di quanto li abbiano corrosi i secoli. Paesaggi urbani divenuti “non luoghi”, dove nessuno cammina più nel tramonto, mano nella mano a guardare il riflesso di Castel Sant’Angelo o quello di Ponte Vecchio sull’acqua. Il pensiero vacuo di questa sinistra culturale – consentito sempre dall’assenza culturale d’una destra governativa spesso peggiore dell’opposto suo – ha permesso e forse voluto questo mortifero sembiante di una “non vita”. Perché in realtà pochi, molto pochi sono i veri viventi, infatti la maggior parte delle persone vegeta e ne è ben felice, al caldo del loro confino in zone rosse, incapaci di accettare l’indubitabile fatto che la Vita – quella vera – sia non soltanto un’eccezione ma ancor più una conquista.

La non-politica culturale di questo governo ha ucciso definitivamente la Bellezza e l’Arte, impedendo di fatto l’Amore e dunque la Vita. E uso volutamente le maiuscole. L’ha fatto scientemente o inconsapevolmente? Arduo trovare una risposta certa, perché se fosse vera la prima domanda saremmo forse davanti a uno dei più gravi crimini compiuti nei confronti dell’umanità, se invece fosse la seconda… beh, allora fate voi. Parafrasando l’antica pasquinata “quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini”, forse oggi potremmo dire “fecerunt Franceschini” altrove impegnati evidentemente, distratti nel guardare orizzonti digitali prospettati loro sugli schermi di una presentazione in power point.

Il virus pericolosamente mortale è dunque, quello volutamente trasmesso e inoculato silenziosamente nel popolo per intere generazioni. Quello dell’atarassico menefreghismo, tipo “Franza o Spagna, purché si magna”, del “tengo famiglia”, diffuso sottilmente da una sinistra che per decenni ha controllato – e ancora controlla – il patrimonio culturale italiano, pubblico e privato con le case editrici, i giornali, i media e le televisioni, sino ai social, affiancata da una destra che ha sempre avuto timore di apparire poi non solo non democratica, non soltanto politicamente scorretta ma reazionaria, rivoluzionaria e tradizionalista. Non sia mai. Il vero virus che stanno usando per privarci della libertà della vita, sottraendoci movimento, abbracci e gioie è nascosto sotto le “varianti” di quella struttura biochimica chiamata Covid-19, programmato per un eterno autoperpetuarsi, finalizzato alla desolazione di un Paese oggi e del mondo tutto, domani.

Le città, tutte ma quelle d’arte soprattutto, essendo formate da persone, vivono della vita delle stesse e privarle della folla – che è un bene ricordiamolo, perché la folla è viva, vivace e vitale – che ne riempie piazze e strade, significa applicare un sistematico, invisibile sterminio delle anime prima ancora che dei corpi. Sopprimere, come stanno facendo, ogni vita sociale porterà inevitabilmente al collasso economico prima e alla morte dei più deboli psichicamente, subito dopo. L’importante non è solo il cibo, perché Qualcuno in Galilea, un tempo disse che “non di solo pane vive l’uomo” e guarda caso lo sussurrò al Plagiario per eccellenza, all’Ingannatore. Eppure, non vediamo alcuna sollevazione contro questo agire da parte della destra che, immobile, lascia fare, forse nella speranza di poter poi occupare i ruderi e le rovine quando sarà troppo tardi, completamente inerte su qualsiasi tipo di reale ed efficace, non dico originale, offerta culturale.

Vane parole come “Identità”, “Cultura”, “Sovranità”, utilizzate troppo spesso come specchietti per allodole quando si è in cerca di voti o comunque di consensi, ma destinate a restare sempre poi lettere morte, defunte e sepolte, senza neanche un cippo funerario a ricordarle quando si governa. E forse, per chi ha la mia età e lo ricorda, aveva ragione Merlino in Excalibur, quando diceva che “la maledizione dell’uomo è che egli dimentica”. Ricordiamolo allora quando sarete, quando saremo, nelle anguste cabine elettorali… ricordiamolo che non fu solo e tutta colpa di Franceschini questa lunga, estenuante, apocalisse.

Aggiornato il 18 febbraio 2021 alle ore 09:24