Giuseppe Conte, il nulla intervallato dal niente

 “Vino rosso con il pesce. Dovevo capirlo da questo”. A pronunciare la famosa frase fu Sean Connery, nei panni di James Bond in Dalla Russia con amore del 1963, dopo avere scoperto l’appartenenza di Donald “Red” Grant alla Spectre. Curriculum vitae ultra farcito. Dovevamo capirlo da questo. D’altronde la storia del Giuseppe Conte divenuto celebre è iniziata così, poco meno di due anni fa. Da più ombre che luci nel suo barocco curriculum e da una smania di protagonismo senza pari. Ogni politico utilizza l’esibizionismo come una delle carte principali da giocare, caratteristica comune a maggior ragione in coloro che si sono succeduti, nel corso degli anni, a governare questo Paese. Cosa non si farebbe per il consenso! Non fa eccezione l’ultimo ed attuale inquilino di Palazzo Chigi, con una grande, drammatica, differenza di fondo rispetto a – quasi tutti – i predecessori: Giuseppe Conte non è un politico.

A lui la celebre massima di Benedetto Croce “il politico onesto è il politico capace” non si dovrebbe neppure applicare, se non fosse che da due anni si è appropriato della stanza dei bottoni italiana. Altresì non è neanche un tecnico, termine che comunque, ripensando al precedente bocconiano, provoca il voltastomaco. È infatti un perfetto sconosciuto, portato alla ribalta da un movimento a sua volta antipolitico, nato sull’onda lunga di Mani Pulite. Dietro all’abbigliamento dell’attuale premier, sempre ricercato ed elegante, dietro alla pochette perfettamente infilata nel taschino e alle cravatte di pregiata fattura, c’è il nulla, un vuoto pneumatico concesso e lecito per chiunque, vivaddio, ma non per un presidente del Consiglio; figuriamoci per uno che non ha provato il minimo imbarazzo quando si è persino spinto nel citare nientepopodimeno che Winston Churchill, mentre nella realtà è poco più che un Conte Mascetti.

“L’avvocato degli italiani”, ipse dixit, è stato ed è un po’ tutto e niente, agli esteri prima sovranista, poi europeista, ora invece un ibrido spaesato nei confronti di Bruxelles, talvolta timido talaltra sfrontato. In politica interna finto garantista prima e vero giustizialista dopo, valga per tutti sia il caso Diciotti sia il caso Gregoretti. Nel primo, Conte avallò e condivise le decisioni prese dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini che, nell’agosto 2018, bloccò per sette giorni lo sbarco dalla nave della Guardia Costiera di 177 migranti. Il premier si definì responsabile dell’indirizzo di politica internazionale del governo che il leader leghista non fece altro che attuare. “Di questo indirizzo, così come della politica generale del governo, non posso non ritenermi responsabile, ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione”, così chiuse il suo documento che fu allegato alla memoria presentata dall’allora titolare del Viminale nella Giunta per l’Immunità del Senato.

Anche nel secondo, risalente al luglio 2019, Giuseppe Conte inizialmente non mosse un dito, come l’anno precedente, per poi, nel momento in cui gli equilibri all’interno del governo sono cambiati, con la Lega all’opposizione e il Pd in maggioranza, mutare atteggiamento e tuonare contro l’operato di Salvini, sfilandosi da ogni tipo di responsabilità. Perché Conte, se effettivamente non si trovava d’accordo con l’azione dell’allora ministro dell’Interno, non impedì quella decisione sul nascere? Semplice quanto banale la risposta, qualora lo avesse fatto, sarebbe infatti tornato dall’oggi al domani nell’anonimato. Diciotti – Gregoretti, casi gemelli ma atteggiamenti opposti da parte di chi non ha un’idea propria ma come il Das o il Pongo si plasma in un modo o nell’altro, a seconda degli eventi e delle opportunità. Prima giallo, poi giallo – verde, poi nuovamente solo giallo e adesso giallo – rosso. Domani, chissà, “Giuseppi” sarà solo rosso, ma non dalla vergogna, quello giammai.

Un disgustoso saggio di trasformismo, rivisitato in chiave moderna. In Conte, la mancanza di idee politiche proprie è tanto evidente quanto sconcertante e lui stesso non fa nulla per nascondere il deserto che alberga nella sua mente e nel suo operato “politico”. “Non chiedetemi se sono garantista o se sono giustizialista. Queste contrapposizioni manichee vanno bene per i titoli dei giornali. Già come avvocato e come professore di diritto, queste visioni semplificatrici affidate alle ideologie degli ‘ismi’ non mi sono mai piaciute. Anche adesso che sono presidente del Consiglio continuo a pensarla allo stesso modo”. Appena tre mesi fa (anche se sembrano passate ere geologiche), prima dunque che questa pandemia prendesse il sopravvento, il premier rispose così a chi azzardava domandargli se abbracciasse il garantismo o il giustizialismo.

Erano i giorni del dibattito sulla illiberale, giacobina e pericolosamente agghiacciante riforma della prescrizione, portata avanti dal ministro Alfonso Bonafede, già assistente gratuito di Diritto privato del professor Giuseppe Conte all’Università di Firenze, (sì, lo stesso Guardasigilli convinto che il reato diventa colposo quando non si riesce a dimostrare il dolo!). Neppure in quel contesto il presidente in questione fu capace di partorire un’idea, rifugiandosi, al contrario, in un ambiguo quanto insensato riferimento a “contrapposizioni manichee”. Se il premier pugliese fosse un libro, me lo immaginerei con una copertina ordinata e luccicante ma con al suo interno migliaia di pagine bianche e vuote. Il contagio delle idee non ha attecchito in Conte neppure in questo periodo pandemico, prima dimostrazione calzante fu quel tragicomico 7 marzo scorso, quando lui e il suo governo comunicarono la chiusura della Lombardia e di alcune province di Veneto, Emilia Romagna e Piemonte, facendo circolare una bozza di un decreto non ancora firmato, creando allarmismo e ansia ed anticipando diverse fughe di persone dal nord al sud.

Far circolare o farsi sfuggire un decreto di tale portata prima ancora di firmarlo è un comportamento frutto di inadeguatezza politica. Ma purtroppo non è finita lì. L’inquilino di Chigi è l’uomo degli annunci all’ora che volge il disio, quella del fu aperitivo, il narcisista che ogni tot giorni viene a svelarci il nulla con una carica di pathos che, giorno dopo giorno, fa sempre meno breccia nella pancia degli italiani. Dopo i suoi comunicati bisogna sempre aspettare la mattina seguente (quando la pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale è veloce) per leggerlo e capire finalmente ciò che la sera prima con una “Supercazzola” aveva – non – detto. Spesso lo abbiamo visto attraversare il corridoio prima di materializzarsi alle telecamere, atteggiandosi a Barack Obama, con la basilare differenza che l’ex presidente degli Usa compiva quel gesto per andare ad annunciare notizie epocali come l’uccisione di Osama Bin Laden; lui invece cosa annuncia? Il nulla, intervallato dal niente.

Se questa campagna comunicativa poteva avere un certo grado di efficacia ad inizio emergenza, quando si era tutti spaesati e si attendeva un Messia che venisse ad informarci sulla situazione, adesso, ormai giunti alle porte di maggio e con la sempre più profonda e lucida consapevolezza, da parte di tutti gli italiani, che la crisi è e sarà devastante, i proclami oltre a non bastare più, infastidiscono. Al contrario i fatti urgenti, in questo caso sinonimo di soldi, devono sostituire i discorsi motivazionali. Non bastano seicento euro – che in seconda tranche potrebbero aumentare ad ottocento, ma che, ad oggi, neppure sono arrivati a tutti gli autonomi – per migliorare la situazione né tantomeno per calmare gli animi.

Lo sforzo è senza eguali e la crisi è senza precedenti e su questo siamo tutti d’accordo, ma parimenti conveniamo all’unisono che la velocità di intervento gioca un ruolo fondamentale, come in tutte le emergenze, e finora la macchina gira a regimi troppo bassi per apportare un reale aiuto, per suturare ferite che, giorno dopo giorno, si allargano e si infettano sempre più. Il presidente del Consiglio continua con il solito ritornello che il mondo ci guarda e che il “modello Italia” è visto con ammirazione dall’estero. Questa è l’ennesima balla, perché negli altri Paesi le strategie sono ben chiare e i soldi sono arrivati; i rubinetti, più o meno generosi, sono stati aperti. Invece nello stivale si stanno verificando lentezze e disorganizzazioni catastrofiche, il premier ha annunciato che il danaro della cassa di integrazione sarebbe stato distribuito entro metà aprile mentre il presidente dell’Inps già dal primo momento affermava che i soldi sarebbero arrivati, ad essere ottimisti, non prima della fine del mese.

Con la conseguenza che ad anticiparli sono state le imprese. Questo significa prendere in giro i cittadini e dal primus inter pares un comportamento tale non è e non deve essere ammissibile! Sul fronte imprese aveva sbandierato una immediatezza ed automatismo nell’erogazione di liquidità ma ad oggi non è ancora arrivato nulla ed adesso, addirittura, chiede “un atto d’amore” agli istituti bancari. Bello se potessimo riderci su, purtroppo non possiamo permettercelo. Nulla ancora per i prestiti fino a un massimo di venticinque mila euro e comunque non superiori al 25 per cento dei ricavi, per i quali è prevista una garanzia del 100 per cento e nulla per i restanti superiori, garantiti dallo Stato fino al 90 per cento; per questi ultimi non basta una mera autocertificazione per il rilascio del prestito, al contrario sono necessarie istruttorie da parte delle banche che provocheranno dilazioni temporali per l’ottenimento dei soldi, con effetti letali.

Altro che “Cura Italia, questo governo sta portando l’automobile Italia, sprovvista di airbag e cinture di sicurezza, a sbattere violentemente (meglio, irreparabilmente) contro un muro di cemento armato. Il presidente Conte ha sprecato un’occasione gigante, avrebbe potuto mettere in atto una strategia unitaria, attingendo non soltanto dalla maggioranza ma anche da tutti i partiti di opposizione (al netto degli ultimi e frequenti “scivoloni” del leader leghista, che ad onor del vero si sono verificati, rappresentando autentici autogol), ma così non è stato e dunque si ritrova senza né strategie né, al tempo stesso, alibi. In un momento necessario per un’azione comune, ha prima chiesto una tregua ai partiti avversari per poi tirare dritto, esautorando il Parlamento, riducendolo meramente ad impotente teatro e palcoscenico per i suoi vacui monologhi. Non ha ascoltato minimamente alcun tipo di consiglio e proposta proveniente da qualsivoglia soggetto non appartenente alla sua cerchia di “saggi illuminati”; neppure Silvio Berlusconi, ultimo statista dotato di mente ancora lucidissima e propenso a dare apporto e fornire supporto in cabina di regia, è stato consultato.

Suggerimenti in materia fiscale, emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza, con rendimenti moderati, ma sicuri e fissi, per fronteggiare le conseguenze legate al Covid-19, come suggerito dall’ex ministro forzista Giulio Tremonti e poi ripreso da Matteo Salvini e Giorgia Meloni; nulla di tutto ciò è stato contemplato. Non basterà più interpretare la parte del professore odioso che, approfittando delle reti unificate, dice i famosi nomi e cognomi, per accaparrarsi un po’ di consenso. Su quest’ultimo, che oscilla sempre come le montagne russe, si regge la politica, e così come il gradimento del governo è ancora attualmente alto, domani, tra un mese o più, quando purtroppo molte saracinesche potrebbero (il condizionale è il mio personale omaggio all’ottimismo) non riaprire, potrà calare vertiginosamente. Ma non vi sarà da esultare, nonostante la tentazione, perché ormai il dado sarà tratto e la situazione disastrosa.

Se già in un momento di bonaccia una nave non è ben strutturata, una tempesta potrà soltanto accentuarne i difetti. Questa crisi sta profondamente amplificando le crepe, le inadeguatezze e le contraddizioni della nave giallo – rossa, basti pensare ad Italia viva che quotidianamente attacca il governo, pur facendone parte. Uno scafo salpato a settembre dello scorso anno senza alcuna idea su come affrontare la traversata, mosso soltanto da una motivazione, quella di impedire dichiaratamente e a tutti i costi nuove elezioni, per evitare di tornarsene mestamente e giustamente a casa.

Aggiornato il 30 aprile 2020 alle ore 13:46