La Consulta boccia le tutele crescenti

Siamo un Paese strano. Nel 2015, cioè appena tre anni orsono, il Governo Renzi imprime una svolta radicale alla disciplina dei licenziamenti, mandando in pensione la reintegrazione (salvo ipotesi limite) e prevedendo per i nuovi assunti un regime risarcitorio inedito: la tutela risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo viene determinata in modo automatico e cresce con l’aumentare dell’anzianità di servizio. Due mensilità per ogni anno di servizio in caso di licenziamento ingiustificato, con un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro. Una mensilità per ogni anno di servizio in caso di licenziamento formalmente viziato, con un minimo di due e un massimo di dodici. Nelle imprese di piccole dimensioni (fino 15 dipendenti nell’unità produttiva o 60 in totale) gli importi sono dimezzati e il tetto massimo è fissato a sei mensilità.

A luglio 2018, cioè appena due mesi fa, il Decreto dignità interviene, tra proclami da un lato e polemiche dall’altro, elevando la misura dell’indennità prevista in caso di licenziamento ingiustificato passando dalle attuali quattro mensilità minime e ventiquattro massime, a sei minime e trentasei massime. Per gli occupati nelle imprese di piccole dimensioni cambia solo il minimo (che passa da due a tre mensilità), ma non il massimo (che resta fissato a sei). Invariato anche l’importo dell’indennità per i vizi formali.

Il 25 settembre 2018 la Consulta, chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale della predetta disciplina sotto un complesso di profili (carenza di carattere compensativo per il lavoratore e di effetti dissuasivi per il datore di lavoro; potenziale discriminazione tra lavoratori; preclusione di qualsivoglia discrezionalità valutativa del giudice con l’effetto di disciplinare in modo uniforme casi dissimili tra loro; possibile inadeguatezza della quantificazione; contrasto con fonti sovranazionali quali la Carta di Nizza e la Carta sociale europea, con conseguente violazione di un un preciso criterio di delega) si pronuncia dichiarando incostituzionale la previsione di un'indennità crescente determinata in ragione della sola anzianità di servizio, in quanto contraria ai principi di ragionevolezza e uguaglianza nonché agli articoli 4 e 35 della Costituzione per la lesione del diritto al lavoro.

In attesa di conoscere le motivazioni della decisione, si può peraltro dire fin d’ora che la decisione colpisce al “cuore” il Jobs act e travolge, di conseguenza, la parte del Decreto dignità relativa ai licenziamenti. Tutto da rifare, dunque. E anche in fretta, perché la bocciatura selettiva del decreto 23 del 2015, ovvero del meccanismo risarcitorio previsto dall’articolo 3, comma 1, comunque vadano le cose (apertura ad una determinazione discrezionale dei giudici, entro i tetti massimi previsti?), determinerà un piccolo terremoto, investendo anche i giudizi pendenti, e spalancherà le porte all’incertezza. Che è il miglior amico degli avvocati ma il peggiore delle imprese e dei lavoratori.

Perché, dunque, non cogliere l’occasione per guardare oltre, per ripensare al sistema complessivo delle tutele in caso di licenziamento illegittimo? Per riportare equità, organicità e certezza nel sistema basterebbe concentrarsi sulla norma cardine, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, eliminando tutto il resto e rimodulando le tutele ivi previste in relazione all’effettiva gravità del vizio del licenziamento e alle dimensioni del datore di lavoro (distinguendo in coerenza con dei parametri previsti dall’Unione europea, ovvero numero di dipendenti, fatturato e bilancio, fra micro, piccole, medie e grandi imprese), ma rendendole omogenee per tutti i lavoratori, senza distinzione tra vecchi e nuovi assunti. La restituzione al giudice di un potere di determinazione discrezionale “guidata” entro parametri certi, idonea ad assicurare al contempo certezza ed equità, potrebbe realizzare quell’equilibrio soddisfacente fra esigenze contrapposte da anni invocato da imprese e lavoratori.

(*) Professore di Diritto del lavoro nell’Università di Modena e Reggio Emilia

Aggiornato il 13 marzo 2020 alle ore 12:43