Di questi tempi, navigando tra quotidiani, televisione e social si è talvolta attraversati da una strana sensazione di irrealtà, dall’impressione di trovarsi in un romanzo di George Orwell o Ray Bradbury o in film distopico, in cui un potere opprimente e liberticida realizza un gigantesco esperimento sociale di governo delle masse e di manipolazione del pensiero. L’immagine del riminese scoperto da un drone mentre prende il sole su un lettino in spiaggia a Rimini e braccato dalla polizia municipale fa correre il pensiero al film di Terry Gilliam, Brazil, del 1985, e all’immagine (che ha ispirato il regista) di un vecchio, seduto su una sdraio in spiaggia, mentre ascolta Aquarela do Brasil alla radio, per evadere dalla realtà ed immaginare un mondo meno tetro di quello che lo circonda.

Il video dell’inseguimento del runner su una spiaggia abruzzese ricorda quello di Montag, il protagonista di Fahrenheit 451, mentre tenta di raggiungere “i sovversivi”, quelli che leggono e ricordano parti di libri, con un cane meccanico che lo tallona da presso, la polizia che lo incalza e le telecamere che lo riprendono. E come non intravedere scorci del grande fratello orwelliano di 1984 nell’opera di quotidiana, metodica, demolizione mediatica non solo degli “ultimi giapponesi” che osano ribellarsi al dogma del tutti a casa (Vittorio Sgarbi e Giorgio Agamben per tutti) ma anche di chi, più “moderatamente”, evidenzia le anomalie, talvolta le assurdità, della situazione che stiamo vivendo e prova a fare osservazioni o proposte ragionevoli (penso a Giuliano Cazzola che, per aver denunciato sul Riformista i rischi della pandemia di panico che accompagna la diffusione del Coronavirus, è stato coperto di insulti; o alla ministra Luciana Lamorgese che, per avere osato autorizzare le uscite dei bambini con i genitori, è stata dipinta come un novello Erode)? O nel clima di caccia all’untore dove ogni cittadino si sente investito del ruolo di controllore sociale dell’eversivo?

Intendiamoci. Misure rigorose erano e restano necessarie. Gestire nell’emergenza un popolo geneticamente poco incline alla disciplina non è opera semplice. Passi anche l’app che controllerà spostamenti ed eventuali “contatti ravvicinati” con persone infette. Ma perdere di vista le coordinate fondamentali del vivere civile e della democrazia, accantonarle come inutili orpelli, è un errore che non possiamo permetterci. Ha ragione Mauro Barberis quando, su MicroMega, afferma che “come se non bastassero l’emergenza sanitaria ed economica, siamo nell’emergenza costituzionale più grave dal 1948, l’anno della Costituzione repubblicana”. E ancor più quando osserva come pochi se ne siano accorti. Forse, in realtà, qualcuno che se ne è accorto c’è, ma quasi nessuno osa aprir bocca per timore di essere seppellito dalla gogna mediatica. A pochissimi, si sa, piace essere coperti di insulti. Solo così si spiega il silenzio dei giuristi (categoria a cui appartengo), sempre molto pronti ad intervenire con raffinate argomentazioni e a dibattere vivacemente ogni volta che sulla scena compare una qualche questione che tocca la sensibilità sociale o incide su veri o presunti diritti di rango costituzionale: fiumi di inchiostro e interviste a non finire.

Oggi, invece, di fronte ad una sospensione senza precedenti di libertà e diritti costituzionali, da quella di circolazione a quella di riunione (escluse quelle online), dal diritto di voto (col rinvio delle elezioni regionali a data da destinarsi) all’esercizio del culto, funerali compresi, fino a quella di iniziativa economica, per di più con modalità quantomeno anomale, a suon di decreti legge e Decreto del presidente del Consiglio dei ministri, con il Governo protagonista indiscusso e un Parlamento che pare in “quarantena istituzionale”, a dominare è il silenzio. Il lavaggio del cervello cui veniamo sottoposti con sistematicità martellante da settimane ha prodotto anche questo effetto ulteriore: la surrettizia compressione di fatto della libertà di ciascuno di esprimere liberamente le proprie opinioni. Ebbene: svegliamoci, prima che tutto questo passi come normale; prima che ciò che viene giustificato con l’emergenza possa diventare permanente; prima che un qualche virus letale possa insinuarsi subdolamente nelle regole fondamentali della convivenza democratica.

(*) Professore ordinario di Diritto del lavoro dell’Università di Modena e Reggio Emilia

Aggiornato il 22 aprile 2020 alle ore 15:13