I populismi e la fine degli universalismi

Immanuel Kant nelle sue lezioni ammoniva i suoi studenti così: “Da me non imparerete a ripetere pensieri, ma a pensare. Abbiate il coraggio di servirvi del vostro proprio intelletto.

La crisi della democrazia è tutta qui, nella difficoltà di enunciare giudizi responsabili sul mondo che ci circonda. La democrazia è difficile. Ripetiamo pensieri, adoriamo qualche leader, facciamo il tifo per la dialettica sferzante di qualche politico. Ma ci fermiamo qui, il più delle volte, svuotando ogni ulteriore coinvolgimento nella partecipazione democratica. Il confronto dialettico langue, sia per la scarsa qualità degli attori che per la latitanza del mondo delle idee. La fine delle ideologie ha accorciato ogni rappresentazione delle cose del mondo. Con i populismi, le scelte anticipano le cognizioni. Il tifo prevale sulle decisioni. Gli opportunismi e le semplificazioni dominano. Gli argomenti con cui il referendum dello scorso 4 dicembre è stato deciso è lì a dimostrarlo.

Nel tempo delle ideologie il consenso aveva altri percorsi. Anche lì, gran parte delle scelte si formava per adesioni, sulla base di manifestazioni di fede, qualche volta indimostrabili. Ma almeno c’era il sogno d’inseguire idee capaci di rivoluzionare il mondo. I liberalismi e i socialismi s’iscrivevano in questi circuiti.

Stretto nel legame ideologico, il corpo elettorale era disposto a transigere su tante anormalità. Pur di preservare l’ideologia era disposto a perdonare molto, perché l’ideologia giustificava tutto. Chi non ricorda la grossolana espressione di Indro Montanelli che, pur di osteggiare il comunismo, dichiarava pubblicamente di andare a votare democristiano “turandosi il naso”? Anche le prassi di clientelismo, del favoritismo, del malcostume, potevano diventare sopportabili, nell’interesse superiore della fede politica. L’etica dei comportamenti, la moralità delle azioni, la trasparenza delle azioni potevano anche non contare.

Quel tempo è giustamente tramontato. La fine delle ideologie, oltre alla cancellazione dei sogni, ha prodotto anche il cambiamento dei comportamenti. Masse di elettori, private dell’ideologia o semplicemente delle idee, si mobilitano soltanto per esprimere dissenso verso chi governa. Si sono perdute le virtù intrinseche della politica. In cambio si è riscoperto il valore che chi si dedica alla politica deve essere “virtuoso”. Da qui l’esaltazione del ruolo dei giudici e il marchio d’infamia per chi cade sotto un’indagine della magistratura.

La fine delle ideologie segnala vantaggi e danni per le sorti della politica. Le ultime vicende lo dimostrano ampiamente. Tutti gli esiti dei populismi, dalla Brexit a Donald Trump, dimostrano che gli universalismi, di qualsiasi tipo, sono in crisi totale. L’idea di un mondo nuovo, dominato dalla ricerca della pace perpetua, che ha dominato gran parte della politica internazionale del secolo scorso, pare non esistere più. Le appartenenze nazionali, buone in sé, rischiano di trasformarsi in nazionalismi. Le tendenze egoistiche statali rischiano la rottura degli equilibri mondiali.

In Italia i movimenti populisti mietono consensi su due fronti: la giusta pretesa dell’assoluta moralità degli attori pubblici, il contrasto alle migrazioni e alle politiche dell’Unione europea. Solo la prima opzione è degna di apprezzamento. I fenomeni migratori vanno diversamente disciplinati, il contrasto all’Euro e all’Europa prefigura però un vero disastro. Per questo il mondo politico italiano, invece che dimenarsi nella ricerca del maggior numero di candidature da distribuire ai propri seguaci, farebbe bene a interrogarsi sulla priorità di trovare le alleanze più ampie, per riscoprire i valori universali su cui si fonda l’Europa dei diritti. Per battere i populismi ci vuole più Europa, non meno Europa. Almeno su questo, il ritorno alle ideologie pare auspicabile.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:46