Pavone (e Pannella)

“L’importanza del ruolo svolto dai partiti nel periodo 1943-‘45 è stata messa in discussione a partire dalla metà degli anni Settanta, ad opera di una storiografia e di una pubblicistica ‘di sinistra’”. Tali correnti, sviluppando la tesi della “continuità dello Stato”, avrebbero contestato l’esistenza di una profonda cesura tra fascismo e post-fascismo e fornito armi e munizioni alla campagna avviata agli inizi degli anni Novanta e volta a “sminuire il ruolo dei partiti, l’importanza storica della Resistenza e il riferimento all’antifascismo quale fondamento dell’Italia repubblicana”. Le “due opposte vulgate storiografiche di sinistra e di destra”, così, “hanno svalutato in modo convergente il più importante elemento di discontinuità tra fascismo e post-fascismo”, vale a dire “l’accordo tra i partiti diversi per fondare una nuova convivenza politica”.

Questo è il severo j’accuse stilato da Agostino Giovagnoli nel suo recentissimo “La Repubblica degli italiani 1946-2016” (Laterza). Tra il banco degli imputati, il da poco scomparso Claudio Pavone. Tale presa di posizione non deve peraltro stupire. Giovagnoli, allievo di Scoppola, di questi riprende ed enfatizza la valutazione nel complesso assai positiva del ruolo svolto dai partiti di massa nella ricostruzione postbellica. Più in generale, dal connubio di Cavour e Rattazzi al centrosinistra di Fanfani e Moro, passando per il centrismo degasperiano, le vicende italiane prima e dopo l’Unità starebbero lì a dimostrare per Giovagnoli che i frutti migliori sono maturati quando è stato possibile raggiungere un accordo tra i partiti. Quando così non è stato, si sono prodotti crisi e fratture esiziali, come nel primo dopoguerra allorché la divisione tra popolari e socialisti avrebbe srotolato il tappeto rosso al fascismo trionfante. Certo, precisa Giovagnoli, anche le intese partitiche non sono tutte uguali. Non sarebbe così possibile mettere sullo stesso piano le “vere e proprie coalizioni politiche”, coese attorno ad obiettivi fortemente condivisivi, e le “semplici maggioranze parlamentari”, fragili coalizioni puramente elettorali. Lo spartiacque tra queste due diverse realtà sarebbe stato il 1975.

Prima di quel turning-point, infatti, abbiamo la “democrazia consensuale”, continua Giovagnoli, partorita dalla svolta di Salerno e intessuta, grazie all’accordo tra i partiti ciellenisti, di “un comune slancio ricostruttivo”, democrazia consensuale che avrebbe caratterizzato le stagioni della centralità democristiana e dell’incontro tra Dc e Psi. Esauritosi il centrosinistra e con esso la “cultura della coalizione”, avrebbe preso l’abbrivio, invece, il tempo della “debolezza” di governo, “che ha finito per logorare anche i patti fondamentali e le regole della convivenza”.

Tale processo degenerativo, manifestatosi pienamente negli anni del craxismo, avrebbe poi conosciuto la sua acme con la cosiddetta Seconda Repubblica, con il passaggio, complice la disintegrazione del partito cattolico, dal consensualismo al “bipolarismo conflittuale”. All’“inserimento degli eredi del Pci in un governo multipartito [...] nella logica della democrazia consensuale”, si preferì realizzare, osserva amaro Giovagnoli, “l’alternanza di governo, sgombrando il campo dai partiti di centro e in particolare dalla Dc”.

Una lettura del genere, che fa del sistema partitico postbellico egemonizzato dalla Dc una mitica età dell’oro, in netta discontinuità con il regime politico precedente, veramente poco può concedere a chi, come Pavone, ha tentato di individuare e seguire sotto la crosta partitica linee di continuità tra le età liberale, fascista e post-fascista, linee di continuità riguardanti i ceti burocratici, delle forze armate e della magistratura, le amministrazioni statali e parastatali, i codici civile e penale, gli indirizzi di politica economica con i relativi istituti ed enti che rompevano l’uniformità dello Stato amministrativo di stampo napoleonico. Linee di continuità che non scandalizzavano Pavone, che le considerava in linea con l’evoluzione delle altre economie capitalistiche occidentali, ma che cionondimeno non dovevano essere sottovalutate per la loro curvatura potenzialmente autoritaria. “Istituzioni e apparati – scriveva Pavone nel 1974 – che sembrano adattarsi ugualmente bene a regimi politici tanto diversi rispetto ai valori della democrazia sono istituzioni e apparati pericolosi, che non offrono alcuna garanzia democratica”.

Interpretazioni eterodosse, queste, che nel corso degli anni Settanta sarebbero risuonate anche nelle aule parlamentari. Era Pannella, nell’ottobre del 1976, a denunciare alla Camera dei deputati la “miriade di enti che vivono parassitariamente attorno al ministero del Lavoro e della Previdenza sociale”, la “miriade di enti dello Stato corporativista”. Ma, aggiungeva Pannella, se la Democrazia cristiana era riuscita a conservare e consolidare “lo Stato immaginato da Bottai e da Alfredo Rocco”, lo aveva potuto fare grazie alla complicità del Pci, “perché in questi trent’anni, in realtà, si è sempre pensato da sinistra che il nostro rischio in Italia fosse quello del classico capitalismo americano, di rapina, piratesco, mentre invece passava appunto attraverso i meccanismi di continuità dello Stato clericale e del potere clericale”.

(*) Professore associato in Storia contemporanea - Università Roma Tre

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:24