Quando Pannella era spinelliano con riserva

“Quel che troviamo in quel testo è una visione degli Stati Uniti d’Europa tutt’altro che democratica, e ancor meno liberale”.

Questo il j’accuse, tagliente e doloroso come una stilettata, sferrato da Luca Ricolfi nel suo recentissimo “Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi” (Longanesi). Le critiche mosse dal sociologo torinese ed editorialista de “La Stampa” al Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni sono sia di metodo che di contenuto.

“I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sulla i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione [...]. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente” e la “metodologia politica democratica” si rivela “un peso morto”.

Questo si legge nel documento dell’agosto del 1941. Il partito della “Rivoluzione europea”, precisa il Manifesto, “attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto, non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato e attorno ad esso la nuova democrazia”.

Gli estensori del Manifesto, sembra dunque di capire, che accusavano gli Stati nazionali di essersi trasformati in “entità divine” e di aver partorito da ultimo la “reazionaria civiltà totalitaria” ritenevano che per dare corpo alla loro proposta politica fosse necessario mutuare, perlomeno temporaneamente, dalle esperienze totalitarie le idee di partito-guida costituto da rivoluzionari di professione e di dittatura temporanea (cosa è d’altronde la momentanea dittatura del partito rivoluzionario di cui sopra se non la riproposizione della marxiana e transitoria dittatura del proletariato?). Ma quali sono poi i contenuti di tale proposta? Certamente i redattori del documento non ritenevano che l’istituto della proprietà privata fosse un dato intrinseco al nuovo ordinamento che andavano progettando. Più in generale, “forze economiche” e “interesse individuale” erano “gigantesche forze di progresso” nella misura in cui venivano convogliate “verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività”. Esclusa la “statizzazione generale dell’economia” che non può che degenerare nella sua burocratizzazione, “la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”.

In dettaglio, le imprese monopolistiche o di interesse generale (elettriche e siderurgiche) e i settori strategici (compreso quello delle grandi banche) devono essere pubblici: “è questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti”. Poi riforma agraria ed estensione della proprietà operaia nell’industria, scuola pubblica, indipendenza della magistratura, libertà di stampa e associazione, abolizione del concordato; infine, assicurazione a “coloro che riescono soccombenti nella lotta economica [...], con una serie di provvidenze”, di “un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio”.

Questa era la “Rivoluzione europea” e “socialista”, perché si proponeva “l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita”.

Sebbene Ricolfi ammetta fugacemente che taluni di questi obiettivi fossero effettivamente “ragionevoli”, cionondimeno conclude seccamente come sia “difficile non vedere la natura giacobina e decisamente antidemocratica di un simile progetto politico”, stigmatizzando coloro che, soprattutto a sinistra, di tale natura non se ne sono mai accorti (o hanno fatto finta di non accorgersene).

In verità, una non perfetta consonanza di vedute con l’impostazione spinelliana è stata manifestata decenni fa da chi, successivamente, questa concordia discors avrebbe preferito rendere sempre più sfumata.

Nell’intervista rilasciata all’Unità il 30 gennaio del 2016, pochi mesi prima di morire, Marco Pannella, commentando la visita dell’allora primo ministro Matteo Renzi a Ventotene, ricordava e rilanciava l’idea spinelliana degli Stati uniti d’Europa contro l’“Europa ancora prigioniera delle sovranità degli Stati nazionali”, per poi suggerire a Renzi di “fare suo quello spirito che era di De Gasperi, Adenauer e di Spinelli quando si battevano negli anni Cinquanta per il progetto di trattato per istituire la Comunità europea di difesa (Ced)”, cosa altra rispetto alle “tentazioni securitarie” nazionali che, illudendosi di combattere il terrorismo, non facevano che alimentare il “complesso militare industriale”.

Del progetto della Ced, morto per mano francese nell’agosto del 1954, non vi è traccia però nell’intervento di Pannella alla Camera dei deputati il 15 febbraio del 1977, in occasione del dibattito sulla ratifica del trattato siglato dai Paesi membri delle Comunità europee che introduceva l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo. In quell’intervento il leader radicale si scagliava “contro il prodotto del romanticismo nazionalista, delle logiche degli Stati nazionali” e l’“ottimismo ingiustificato” di Spinelli che confidava che l’Europa potesse “costituirsi in una entità capace di una propria strategia e di una propria forza militare e industriale” in un momento in cui la ricerca scientifico-tecnologica era “amministrata nel mondo dalle multinazionali del complesso industriale-militare”, soprattutto statunitensi. Fin da allora, però, a questo impianto Pannella contrapponeva la “conversione delle spese e delle strutture militari [...] in spese e strutture civili e sociali”; solo “con questo metodo forse, che è un metodo di tipo socialista, pacifista, internazionalista, si riesce a reperire – in teoria almeno – una reale possibilità di crescita storica”.

Se quindi Pannella affermava di essere d’accordo con Spinelli sulla questione specifica dell’elezione diretta del Parlamento europeo, allo stesso tempo non rinunciava a segnalare “tutta la distanza che c’è tra chi, come Spinelli, punta tutto sullo Stato federale per la politica di potenza che egli si illude consenta, e chi, come noi, è interessato allo Stato federale perché siamo federalisti e perché ci interessa battere, anche in questa occasione, l’illusione di uno Stato europeo giacobino, centralizzato e accentrato che possa in fretta, con maggior fretta, riuscire a garantire storicamente alla società giustizia e libertà. Illusione pericolosa che da socialisti libertari combattiamo e combatteremo”.

(*) Professore associato in Storia Contemporanea - Università Roma Tre

 

Aggiornato il 23 giugno 2017 alle ore 13:29