Processo ventennale, “solita” magistratura

Sono poche le persone che si possono ritenere in grado di entrare nel merito di processi, specialmente quando si tratta di questioni complesse come l’accusa per cui è imputato Marcello Dell’Utri, tra i fondatori di Forza Italia ed ex senatore, già condannato in primo grado ed in appello per il medesimo reato: concorso esterno in associazione mafiosa. Io non mi ritengo tra queste, non ho certamente le competenze per fare un'analisi giudiziaria e, se anche le avessi, non avrei un quadro degli elementi sufficientemente completo e chiaro per potermi esprimere. Altri, con le mie stesse competenze e con i miei stessi elementi di giudizio, invece, come ho letto e leggo anche in queste ore sulla stampa, amano esprimersi ed ergersi a giudici massimi della giustizia manettara.

Quel che mi lascia perplesso riguarda le tempistiche e la “forma” di quest’eterno processo, in cui le prove sono davvero poche e le “ricostruzioni”, anche fantasiose, sono molte e davvero deboli. Quello di Dell’Utri è uno dei processi più lunghi della storia giudiziaria del nostro Paese; sono passati infatti vent’anni dall’apertura delle indagini e 18 dalla messa sotto accusa. Nel testo che motiva la prima sentenza di condanna, emessa dalla Procura di Palermo nel 2004, si legge: “La pluralità dell’attività posta in essere da Dell’Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa Nostra, alla quale è stata tra l’altro offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici”.

Insomma, sembra più un teorema che una sentenza questa motivazione, che non cita alcuna prova o riferimenti ad altre figure coinvolte. Già di per sé il reato contestato è un reato strano; si parla infatti di concorso esterno in associazione mafiosa. Sembra una contraddizione in termini: come si fa ad “avvantaggiare” la mafia dall’esterno, quindi non essendovi associati, e davvero qualcuno può provare che ci sia stato il dolo? Cioè che Dell’Utri abbia fatto quel che ha fatto proprio con l’intenzione e la volontà di “aiutare” la mafia? Trovo tutto molto campato in aria e bizzarro. Poi, se si parla di associazione mafiosa, o uno ne fa parte oppure non ne fa parte. Se non ne fai parte non ha senso che l’avvantaggi, ma se anche per sbaglio un qualsiasi siciliano aiutasse il suo vicino di casa mafioso, magari presentandogli il direttore della sua banca o una persona amica per fargli una cortesia, cos’è il povero siciliano ignaro? Un criminale? Ha aiutato l’associazione mafiosa dall’esterno, senza nemmeno rendersene conto.

Si tratta di un reato molto difficile da provare e molto facile da usare contro qualsiasi siciliano che, anche per sbaglio, nel corso della vita può facilmente aver avuto rapporti di qualsiasi genere esponenti di associazioni mafiose e criminali. Ma tornando alla forma e lasciando agli esperti la sostanza, è possibile che nell’Italia di Cesare Beccaria un processo duri vent’anni e non vi sia una condanna o un’assoluzione definitiva? È possibile che si possa vessare per due decenni l’imputato, fino a prova contraria innocente, esponendo lui e la sua famiglia alla pubblica gogna? È questa la magistratura italiana? È questa la giustizia che vogliamo? Io no! Lo dico con decisione, con fermezza e consapevolezza che non si possa andare avanti in questa direzione. Inoltre: non è strano che uno dei fondatori di Forza Italia venga indagato, messo in stato d’accusa e condannato per reati commessi prima del 1992, ma che questo accada soltanto dopo il 1994, anno della sua entrata in politica? Mi sembra una coincidenza alquanto incredibile.

Concludo ora facendo una breve riflessione sul tema d’attualità: l’abbandono da parte di Dell’Utri del territorio nazionale. Mettetevi nei suoi panni, se vorreste scappare dall’Italia dove andreste? In un Paese come il Libano? Dove dal 1975 esiste un trattato bilaterale d’estradizione con l’Italia. Prendereste l’aereo? Parigi-Beirut. Andreste in uno dei più noti e lussuosi hotel della capitale di quel Paese? Paghereste con la carta di credito? Usereste il vostro telefono? Avendo un patrimonio importante vi portereste qualche migliaio di euro soltanto? Vi registrereste in albergo con il vostro passaporto originale e italiano? Io no certamente, ma Marcello Dell’Utri invece ha fatto esattamente tutte queste mosse, “tracciabili” e che sapeva avrebbero condotto le ricerche a trovarlo in pochi minuti. Mi viene da sorridere a pensare soltanto lontanamente che Dell’Utri abbia pensato di farla franca, non è così ed è evidente per chiunque, non stava evidentemente scappando.

Che si stesse curando o meno è poco rilevante, sicuramente stava facendo qualcosa in Libano, meno che scappare. Da Aristotele in poi, decine di filosofi e studiosi hanno ripetuto il concetto secondo il quale “la forma è sostanza”, e in democrazia come in un processo è proprio così: la forma è sostanza. Proprio per questo pur non sapendo cosa abbia fatto nel corso della sua vita, per me Dell’Utri è innocente a prescindere, perché la magistratura ha sbagliato tutto, facendo per l’ennesima volta una bruttissima figura. Dimostrando di non essere al di sopra di ogni sospetto, di non avere interesse per la forma e nemmeno di rispettare gli uomini e i loro diritti naturali legati alla dignità.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:16