Israele, Gaza e altre storie

Un po’ a pappagallo quasi tutti a dire: “Due popoli e due Stati”. I due popoli ci sono; uno Stato, pure: Israele; il secondo sarebbe? Un territorio equivalente a quello di Gaza, e poi più in là quelli amministrati dall’Autorità Palestinese? Senza essere un sostenitore di Benjamin Netanyahu e non apprezzando tutta la sua politica, anche prima dell’eccidio consumato da Hamas, fatico a credere che la pace possa passare da lì. Fino a qualche mese fa avrei piuttosto puntato su una federazione svizzera, utopia più realistica; ma anche questa, ora... Ero sostenitore del pannelliano Israele in Europa con Turchia e via via, lentamente, i paesi di lingua araba del bacino Mediterraneo: per tanti versi perché loro non sono Europa e lo è l’Islanda? Ma adesso... Oltretutto come si fa a chiedere a Israele di fidarsi di questa Europa?

Si invoca tregua e cessate il fuoco. Certo la guerra scatenata in reazione all’eccidio è qualcosa di semplicemente orribile. Ma missili e razzi sono sparati anche Hamas, dai loro sostenitori. Loro, il fuoco non devono cessarlo? Loro, gli ostaggi catturati non li devono liberare? Loro possono continuare a sostenere che lo Stato d’Israele prima o poi lo cancelleranno dalla faccia della terra e stermineranno gli ebrei perché ebrei? A Israele si chiede la tregua, dicono, perché Hamas sono terroristi, mentre Israele è uno Stato democratico. Dunque, democratico devi morire? No, rispondono. Reagisci in altro modo. Quale? Non te lo dicono chiaramente, ma lasciano intendere che dovresti fare come Golda Meir dopo la strage alle Olimpiadi di Monaco. Basta saperlo che è quello che si chiede a Israele. Però, chi lo chiede, oltre ad accettare questo lavoro “sporco” tenga bene a mente “Vendetta” di George Jonas e il film che da “Vendetta” ne ha poi ricavato Steven Spielberg. In particolare, la conclusione cui arriva il capo del commando del Mossad Avner, a proposito dei nemici eliminati che costituiscono un favore ai nemici dei nemici che non sono meno nemici dei nemici, anzi lo sono di più. Trovino inoltre risposte convincenti da opporre a Ephraim, uno dei capi del Mossad.

Detto questo (è solo un preambolo), la carne della questione, per come mi sembra oggi sia, è nell’articolo che segue e che anticipo. Fino a quando resisterà Israele?

Una collega amica segue con passione e rigore quanto accade in Israele e a Gaza: la sorte dei civili, i bambini in particolare; per lei il colore del sangue è rosso, quale che sia il nome del ragazzino: Natan o Omar non fa differenza. Come darle torto? È preoccupata per quello che accade, le conseguenze. “Come uscirne?”, domanda con una punta di angoscia. Tutto il mondo va a fuoco. Perché ci si commuove per il sangue versato a Gaza e non per altro sangue, dolore e orrore? Un tempo ci si chiedeva il perché di certe “attenzioni” e “indifferenze”; si cercava di capire e di essere capiti. Quel tempo sembra essere lontano. Come nella orwelliana fattoria, sangue, dolore, orrori sono uguali; ma c’è un sangue, un dolore, un orrore più uguale degli altri. “Siamo fortunati”, replico all’inquietudine della mia collega. “Non vedremo la distruzione d’Israele; forse neppure tua figlia la vedrà. Forse i nipoti non avranno questa fortuna”.

Affermazione che le suona brutale, apocalittica. Non mi piace indossare i panni cinici di un Edward Luttwak, ma tutto va in questa direzione. Sotto gli occhi gli ampi servizi dei quotidiani su quello che viene definito il “tunnel di Hamas”, il luogo dove il capo politico di Hamas, Yahya Sinwar, “regista” dell’eccidio in Israele del 7 ottobre scorso, si è nascosto facendosi scudo di una dozzina di ostaggi ebrei. Una rete di gallerie collegate a una profondità di una trentina di metri; stanze e ricoveri attrezzati, alti quasi due metri, con servizi igienici, apparati elettrici per tv e computer, condotte per il ricambio d’aria: veri e propri bunker, non i pur ingegnosi cunicoli di cui andavano famosi i Vietcong: “Il tunnel fa parte di quello che si ritiene essere un compound, uno snodo cruciale per il comando di Hamas che si dipana sotto Khan Yunis e si connette con centinaia di cavità nel tessuto urbano... Un rifugio simile è stato scoperto in un’altra area della città, in quel caso è stato detto che era l’ufficio operativo del fratello di Sinwar, Mohammed...”. Costruzioni complesse: richiedono tempo, denaro, scienza, capacità ingegneristica. Non si realizzano in pochi giorni, servono anni e capitali ben più ingenti di quelli che si possono raccogliere nelle madrase di Karachi o Islamabad.

Dunque: Aman, Shin Bet, Mossad e quant’altro nell’ambito della raccolta di informazioni e sicurezza dello Stato d’Israele, non ne sapevano nulla? Non si sono accorti di nulla? Domanda da estendere ad altri “servizi” d’intelligence “amici” di Paesi occidentali. Nella sola città di Gaza erano ammassate circa seicentomila persone. Non una che per qualsivoglia ragione, la più nobile o la più meschina, abbia “venduto” le informazioni relative a quello che si stava facendo e si è fatto? Come mai nessuna operazione preventiva, dissuasiva, da parte di quelli che hanno fama d’essere i più efficienti servizi d’intelligence? Come è potuto accadere quello che è accaduto, non tanto in termini di “sorpresa” (ce ne sono state altre), quanto in termini di mancata prevenzione e “cura”?

Una possibile spiegazione è che l’Israele di oggi non è più quella che abbiamo – noi canuti – conosciuto: il Paese con una fortissima carica ideale che si rifletteva anche nei suoi governanti, al di là dei loro orientamenti. Si è persa la matrice dei David Ben Gurion, delle Golda Meir; non ci sono più Chaim Weizmann, Abba Eban, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Ariel Sharon, Yitzhak Shamir, Shimon Peres; non c’è più la mistica, laica o religiosa che sia, del kibbutz. Può piacere o meno, il “focolare degli ebrei” oggi è cosa diversa da quella che era al momento della sua fondazione. Un’epica come quella raccontata da Leon Uris in “Exodus” o in “Mitla Pass” oggi è semplicemente improponibile. Il sabra di oggi, piaccia o no, non ha più la fisionomia di Ari Ben Canaan o di Akiva; neppure a pagarlo a peso d’oro trovi un equivalente di Mandria. In Israele vive un popolo stanco, logorato da una guerra che non ha fine, cominciata, con punte più o meno cruente, il 14 maggio del 1948: il giorno stesso in cui lo Stato veniva riconosciuto dall’assemblea dell’Onu. Un territorio fisicamente grande quanto la Sicilia, con meno ebrei di quanti ne vivano nella sola New York, attentati e stragi a Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa, anche quando ci sono periodi di tregua; fuori dai confini Stati come l’Iran irriducibili: non vogliono lo Stato palestinese, ma l’estinzione di quello ebraico. Se questa è la situazione, è fatale prima o poi soccombere.

Da questo scenario sotto gli occhi di tutti, la conclusione che certamente a Gaza si consuma una tragedia figlia della tragedia che Hamas ha consumato il 7 ottobre scorso. Ma ben altra tragedia si prepara e annuncia: la distruzione di Israele sembra essere una ineluttabile condanna. Sarà, forse, un nuovo e disperato Sansone alle prese di nuovi Filistei. La sostanza non muta. Ascolta sgomenta, l’amica collega. La cruciale domanda: “Che fare?”, resta senza risposta. I nemici di Erétz Yisra’él non hanno che da attendere. Il tempo (e la nostra impotenza) lavora per loro.

Aggiornato il 15 febbraio 2024 alle ore 16:00