Google censura i pirati, e non solo loro

Amit Singhal è un ingegnere informatico. Lavora in uno dei posti più ambiti al mondo: Google. Lo scorso 8 agosto ha firmato un breve post che contiene un annuncio importante. Il post di intitola “An update to our search algorithms” (cioè, un aggiornamento sui nostri algoritmi di ricerca) e comunica alla rete una decisione largamente annunciata. In pratica, alla fine Google ha dovuto in parte cedere alle richieste dell’industria discografica, che già da tempo spingeva perché gli utenti del motore di ricerca più famoso del mondo non potessero accedere facilmente ai siti contenenti materiale protetto dal diritto d’autore.

Singhal spiega che a partire dalla settimana successiva alla pubblicazione del post, Google terrà conto di un nuovo valore per stabilire l’ordine dei risultati di ogni ricerca. Si tratta del numero di segnalazioni di violazione di copyright che uno specifico sito avrà ricevuto fino a quel momento. Più segnalazioni il sito avrà ricevuto, più basso risulterà nei risultati ottenuti dalla ricerca. Secondo Singhal, questo cambiamento nel metodo di classificazione dovrebbe aiutare gli utenti a trovare più facilmente quelle fonti che si possono definire legali e di qualità. Sempre ammesso che queste fonti siano esattamente quello che gli utenti vogliono trovare, il che è tutto da dimostrare.

Ma facciamo un passo indietro. Nel 2010 Google si trovò coinvolta in una disputa legale contro la francese Snep (Syndicat National de l’Èdition Phonographique), che accusava il motore di ricerca di favorire la pirateria e la violazione del copyright. In particolare, la Snep puntava il dito contro il sistema di autocompletamento automatico offerto dal sistema, che lasciava comparire nella barra di ricerca parole chiave in grado di condurre gli utenti a siti contenenti materiale protetto dal diritto d’autore. Due diverse corti stabilirono che la Snep aveva torto. Il caso passò alla Corte Suprema Francese. 

In realtà, Google aveva iniziato a bloccare il servizio di autocompletamento già dal 2011, pur senza alterare l’ordine nel quale i risultati delle ricerche venivano visualizzati. In quell’occasione Bit Torrent Inc. si affrettò a dichiarare che, pur rispettando la decisione di Google, il suo trademark meritava di poter essere identificato sul motore di ricerca al pari degli altri.

All’inizio di luglio di quest’anno, la Corte Suprema Francese ha stabilito che è lecito chiedere a Google di censurare parole specifiche, come ad esempio “Torrent”, “RapidShare” e “Megaupload”, lasciando intendere che è opinione della Corte che Google, evitando di mettere delle barriere a questi parametri di ricerca, faciliti implicitamente la violazione del copyright. Con questa decisione la Corte non intende accusare Google di pirateria, ma significa che detiene una parte di responsabilità nel lasciare che gli utenti possano accedere facilmente a siti che contengono illegalmente materiale protetto dal copyright.

Che Google abbia deciso di degradare i siti segnalati non vuol dire però che li abbia eliminati del tutto dai risultati. «Soltanto i possessori di copyright – scrive Singhal – sanno se qualcosa è autorizzato, e soltanto le corti possono decidere se c’è stata violazione del copyright; Google non può determinare se una specifica pagina web ha o non ha violato le leggi sul copyright. Per questo motivo, se il nuovo parametro influenzerà l’ordine di alcuni risultati di ricerca, nessuna pagina verrà rimossa dai risultati stessi, a meno che non riceviamo una valida notifica di violazione dal possessore del copyright». Ad ogni modo, Google ha già iniziato la sua “operazione trasparenza”. È infatti possibile consultare l’elenco delle varie segnalazioni di violazione del diritto d’autore in un apposito transparency report.

La decisione di Google è stata accolta con favore dalle major. Si tratta senza dubbio di una vittoria per l’industria dell’intrattenimento, che già all’inizio del 2012 ha iniziato un pressing asfissiante, spingendo per l’estensione della censura in rete. Una battaglia che a gennaio si consumò anche nel Regno Unito, dove il Dipartimento per la Cultura, i Media e lo Sport mediò un incontro tra l’industria del copyright e i rappresentanti di Google, Yahoo e Bing, ai quali si chiedeva proprio di intervenire sui parametri dei motori di ricerca. Durante quell’incontro, venne anche chiesto ai tre marchi del web di dare priorità ai siti che avrebbero ottenuto una certificazione di legalità dei contenuti e di non indicizzare siti web segnalati alle corti, aspettando che si mettessero definitivamente a punto procedure per de-indicizzare i siti colpevoli di violazioni. Su questi punti Google non si è ancora espresso.

Se ad una prima impressione il sistema può funzionare, analizzandolo nel dettaglio si scopre che presenta delle evidenti falle. Quello che rimane oscuro in tutta questa vicenda è il criterio con il quale le stesse segnalazioni avvengono. Nel suo post, Singhal spiega che le segnalazioni di takedown si contano nell’ordine di milioni (spiega che Google ha ricevuto 4.3 milioni di segnalazioni solo nell’ultimo mese). L’algoritmo ideato dagli ingegneri informatici del motore di ricerca è strutturato in modo che ad un maggior numero di segnalazioni corrisponda una posizione più bassa nel ranking dei risultati. Ma questo succede a prescindere dall’effettivo contenuto delle pagine web. Ciò significa che potrebbe accadere che siti web dal contenuto perfettamente legittimo ricevano molte segnalazioni e vengano degradati al pari di siti che violano effettivamente il copyright. Un esempio fra tutti: Youtube. Il sito di contenuti video più famoso al mondo potrebbe essere declassato per via di segnalazioni relative a singoli video postati senza autorizzazione. 

Ma c’è anche dell’altro. Lo scorso maggio un report di Google mise in luce un fenomeno piuttosto singolare: gli stessi detentori di copyright segnalano spesso contenuti perfettamente legali, arrivando al paradosso di auto danneggiarsi nel tentativo di fare la cosa giusta. Illuminante è il caso di segnalazioni effettuate da nomi come Warner, Paramount Pictures e NBC Universal su alcune pagine del sito IMDb. Tramite questo genere di erronee segnalazioni, alcuni siti possono essere declassati in modo del tutto ingiustificato.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:56