Smettiamola con il vittimismo

Dopo la scontata decisione della Banca centrale europea di aumentare di un altro mezzo punto il costo del danaro (in realtà, la maggioranza del board avrebbe voluto uno 0,75 per cento), in Italia è ripartito il coro dei vittimisti nazionali, secondo cui saremmo ancora una volta messi a mal partito dai falchi dell’Unione europea, ottusamente propensi a salvaguardare il potere della moneta comune. Ora, al di là della stucchevole tiritera di una inflazione causata dal lato dell’offerta – sebbene molti studi abbiano evidenziato una componente rilevante legata alla domanda, soprattutto dopo la tumultuosa ripartenza post-Covid, innescata da una poderosa iniezione di liquidità che ha di fatto drogato l’economia mondiale – di fronte alla voragine di una continua perdita nel valore della moneta, la mossa delle principali banche centrali del pianeta era inevitabile.

L’alternativa, che molti nostri teorici keynesioti da 4 soldi continuano a contrabbandare, era quella di continuare con una linea espansiva, che in Europa durava da oltre un decennio, destabilizzando i vari sistemi economici e massacrando i risparmi. Risparmi che in Italia, faccio presente, sono stati già notevolmente intaccati proprio per far fronte al crescente caro vita, il cui fattore più importante è l’aumento di costi dell’energia ma non solo. D’altro canto, ricordo che tra gli elementi fondamentali di una moneta fiduciaria, oltre al mezzo di scambio e all’unità di conto, vi è la riserva di valore. Riserva di valore la cui salvaguardia, da quando non esiste più il mitico gold standard, dovrebbe rappresentare una dei compiti principali delle stesse banche centrali.

Invece, in Italia è da molto tempo assai diffusa l’idea di una economia continuamente sovvenzionata a colpi di nuove emissioni monetarie a fronte del nulla, immaginando che con ciò si possano determinare mirabolanti effetti moltiplicatori che sono come l’Araba fenice: tutti sanno che vi sono, ma nessuno li ha mai visti. Di fatto, come ho già avuto modo di scrivere recentemente, l’inflazione penalizza oltre ogni misura i ceti più poveri, i quali subiscono, per l’appunto, la tassa più onerosa e regressiva che c’è: ovvero la stessa inflazione. Se poi, come rilevano i citati keynesioti, un aumento dei tassi danneggia maggiormente gli Stati più indebitati, la ricetta non può certamente essere quella sperimentata nei decenni successivi al boom economico dall’Italia in cui, stampando banconote come se non ci fosse un domani, abbiamo rischiato più volte il default.

In una siffatta situazione, con la prospettiva di tassi d’interesse crescenti, l’unico modo per raffreddarli, tacitando i dubbi dei compratori del nostro debito, è quello di mantenere una solida disciplina di bilancio. Cosa che, almeno in parte, mi sembra che stia realizzando l’attuale Governo.

Aggiornato il 20 dicembre 2022 alle ore 09:31