Draghi ci riprova in Europa

Dopo aver clamorosamente fallito nella corsa al Quirinale, Mario Draghi ci riprova, con la speranza di essere più fortunato in Europa, con il malcelato obiettivo di ottenere la poltrona attualmente occupata da Ursula von der Leyen. Tant’è che per la seconda volta, ricevendo il premio dell’American Academy in Berlin al Metropolitan Museum of Art di New York, ha riproposto la sua ricetta di sviluppo per l’Ue, oltre che ribadire l’esigenza di rafforzare la politica estera comune, indicata come uno degli attuali punti deboli del Vecchio Continente.

In estrema sintesi, come aveva già fatto un paio di mesi fa sempre a New York, l’ex numero uno della Banca centrale europea, nonché ex premier italiano, egli ha sostanzialmente espresso in modo raffinato il dominante approccio keynesiano, con il quale si pone al centro della crescita economica la leva degli investimenti pubblici. Un approccio che, soprattutto nella parte del mondo in cui la spesa per il cosiddetto welfare ha raggiunto livelli molto alti (solo in Italia lo stesso welfare assorbe quasi il 50 per cento dell’intera spesa pubblica), non può che tradursi in un ulteriore ricorso all’indebitamento il che, in prospettiva, non può che generare una politica inflattiva da parte della Banca centrale.

Tant’è che, ancora oggi, stiamo duramente pagando il prezzo della linea forsennata, adottata anche altrove, del denaro facile, raggiungendo il paradosso dei tassi negativi. In questo senso, al di là delle magiche alchimie dei nostri prestigiosi banchieri, ritengo che ancora adesso la strategia economico-finanziaria indicata decenni addietro dai grandi nomi della scuola austriaca, a cui si sta ispirando l’eretico presidente argentino, Javier Milei, sia quella che dia le migliori garanzie per uno sviluppo sostenibile e duraturo, sebbene essa, basandosi su un deciso contenimento della spesa pubblica e sulla stabilità della moneta, non sia molto gradita per chi cerca di monetizzare a breve il consenso degli elettori.

Oltre a ciò, e in questo vado sicuramente contro corrente, se fossi un grande elettore europeo, non darei mai il mio appoggio a chi si è preso la responsabilità di sostenere la linea di contrasto alla pandemia suggerita dall’allora ministro della Salute, Roberto Speranza, e dai suoi esperti. Mi riferisco in particolare all’abominevole green pass, alias lasciapassare sanitario, che durante il Governo Draghi ha rappresentato il punto finale della linea liberticida inaugurata dal suo predecessore, il grillino Giuseppe Conte. Si è trattato di un provvedimento che ha di fatto esteso l’obbligo vaccinale a tutti, dato che senza green pass potevi fare solo la spesa e poco altro.

Un provvedimento coercitivo fondato su basi inesistenti e che fu così presentato dallo stesso Draghi: “L’estate è già serena e vogliamo che rimanga tale. Il green pass è una misura con i quali i cittadini possono continuare a svolgere attività con la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”. Eppure – eravamo nel luglio del 2022 – già da tempo si sapeva che il vaccino non scongiurava affatto i contagi. Fu chiaramente una mossa di natura essenzialmente politica che gli eretici più avvertiti di allora fanno ancora fatica a digerire, malgrado l’abbia controfirmata la nostra più prestigiosa riserva della Repubblica.

Aggiornato il 19 aprile 2024 alle ore 09:49