Mes: quello che i partiti non dicono

Il Governo Conte-bis l’ha scampata bella. Il passaggio parlamentare sulla riforma del Mes, il meccanismo europeo di stabilità, avrebbe potuto mettere in crisi l’Esecutivo. Non è avvenuto perché la forza attrattiva del potere avvertita dai Cinque Stelle ha prevalso sulla fedeltà alle idee e ai valori costitutivi del Movimento.

La risoluzione unitaria della maggioranza che dà il via libera al premier Giuseppe Conte per continuare in sede europea a sostenere senza altri intoppi la riforma del Mes c’è stata anche se con qualche fatica, visto il voto contrario di quattro senatori grillini. Lo scampato pericolo però non risolve il problema della negatività per gli interessi italiani del modello di Mes che si sta delineando in sede di revisione negoziale. Purtroppo la polemica politica non ha consentito che da un pacato confronto potesse venire fuori la migliore soluzione per l’Italia. La tattica del rinfacciarsi vicendevolmente colpe ed errori pregressi non ha aiutato a chiarire la situazione. Non è che i parlamentari del centrosinistra mentano nel dire che, nelle condizioni date, il Mes non ci deve spaventare. Essi dicono il vero quando affermano che in caso (malaugurato) di ricorso all’aiuto finanziario previsto dal Meccanismo non sia previsto alcun automatismo nella ristrutturazione del debito, con tutto ciò che un provvedimento di tale gravità comporterebbe sul valore dei titoli di Stato e, di conseguenza, sul risparmio degli italiani.

Tuttavia, il vulnus che deve preoccupare è appunto quel “condizioni date”. Le opposizioni hanno fatto il loro lavoro prendendosela con il premier che avrebbe imbrogliato tutti disattendendo le indicazioni ricevute dal Parlamento lo scorso 19 giugno. Ma avrebbero potuto fare di più nel rappresentare le ragioni del proprio dissenso alla firma del nuovo Trattato. Si sono spese molte parole sulla certezza di fare da donatori di sangue ai grandi malati europei che sono le banche tedesche. Non che fosse sbagliato, il rischio c’è ma bisognava maggiormente insistere sulla mancanza di un automatismo perequativo nel diritto di accesso alle linee di credito per gli Stati contributori. La presenza del doppio canale, con una corsia agevolata per i Paesi in regola con i criteri di convergenza richiesti dai parametri di Maastricht e dalle clausole del Fiscal Compact sul deficit e sul debito pubblici, colpisce mortalmente il principio di solidarietà, pietra angolare dell’edificio comune europeo. Aver accettato l’inserimento di condizionalità nel nuovo meccanismo è una contraddizione di natura filosofica: la solidarietà finanziaria soggetta a condizionalità non è solidarietà, è usura. Le opposizioni, poi, hanno insistito nel citare la Grecia come precedente per ciò che potrebbe accadere in futuro all’Italia. Il paradigma greco è sì efficace perché la sua drammaticità risulta di forte impatto, ma non è del tutto calzante. Maledetta memoria corta degli italiani! Siamo la prova vivente di cosa si possa ottenere da uno Stato usando l’arma sporca della speculazione finanziaria sui titoli del debito sovrano. Non c’è bisogno di varcare il Mar Ionio per cercare un motivo per non fidarsi dei partner comunitari. C’è stato il 2011, il golpe bianco concluso con la defenestrazione del Governo Berlusconi e la sua sostituzione con l’Esecutivo di Mario Monti, “amico” dei poteri forti europei come oggi è “amico” dell’Europa il Conte bis. Non dobbiamo dimenticare ciò che quel passaggio storico abbia significato in termini di devastazione socio-economica dell’Italia e del morale della nazione.

Il 2011 chiama in causa il concetto di “condizioni date”. Cosa sono? Oggi lo sappiamo: uno status politico-istituzionale gradito ai Paesi forti dell’Unione che si riconoscono nell’Asse carolingio. Come si prova a cambiare passo il padrone stringe il morso per rimettere all’ordine il cavallo. E il pelham più afflittivo che provoca dolore sull’imboccatura al cavallo traslato dalla metafora ai rapporti tra Paesi dell’eurozona si chiama spread. Ricordiamoci del 2011. Del buono stato di salute dell’economia italiana l’allora direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, lo raccontò ai tedeschi partecipando a un seminario di studi riservato, organizzato dal Ministero delle Finanze di Berlino nel febbraio 2011. Lo spread che veleggiava sui 160/190 punti base, con rendimenti medi oscillanti intorno al 3 per cento, dava testimonianza della solidità dei nostri conti. Il debito pubblico c’era ugualmente (Fonte Mef – Dipartimento del Tesoro: al 2010 1.843.015 milioni di euro in valore assoluto, 115,40 per cento rapporto debito/Pil) ma non spaventava nessuno. Poi, nel volgere di pochi giorni all’inizio dell’estate le banche tedesche misero in vendita Titoli di Stato italiani posseduti per circa 7 miliardi di euro. Una mossa ideata per riequilibrare  la media di rendimento del Bund al di sotto del 3 per cento ma devastante sui mercati finanziari, abituati a fibrillare ad ogni stormir di foglia. Da quel momento per l’Italia fu la rovina.

Lo spread schizzò in alto fino a raggiungere, il 9 novembre, quota 574 punti con il rendimento del Btp al 7,47 per cento. La Banca centrale europea acquistò circa 100 miliardi di euro in Btp a tassi di rendimento record dell’8 per cento. Il default della seconda manifattura dell’Europa fu evitato solo perché, con la cacciata di Silvio Berlusconi, il Governo commissariale di Monti s’impegnò a seguire pedissequamente le istruzioni impartite da Bruxelles. Accadde allora e chi garantisce che non possa accadere ancora? Il non detto di questa storia è che l’Italia è sì fuori dal rischio di ricorrere al Mes, ma solo a condizione che al timone vi siano forze gradite all’establishment europeo, come gli ascari del Partito Democratico. Ma cosa accadrebbe se, domani, al Governo approdassero i sovranisti? Spread sopra quota 500 punti e Troika al portone di Palazzo Chigi? E per fare cosa? Una crisi procurata delle nostre finanze sarebbe il grimaldello per un furto con destrezza al Tesoro italiano. Se si voleva un ombrello per proteggere l’eurozona dalla speculazione finanziaria perché non sistematizzare la cassetta degli attrezzi messa a punto da Mario Draghi alla Bce? Perché il Quantitative easing non è divenuto uno strumento ordinario di politica monetaria dell’eurozona? La trasformazione della Banca centrale europea in prestatore d’ultima istanza sarebbe stata la strada giusta da percorrere.

Come scrisse il mai troppo rimpianto ministro degli Affari europei, Paolo Savona: “Se lo squilibrio che la Bce deve affrontare è di liquidità, nascente da attacchi speculativi o problemi di breve periodo di alcuni debiti sovrani, il potere di intervento illimitato e non vincolato nell’esercizio della funzione di lender of last resort non solo non richiederebbe una creazione aggiuntiva di base monetaria, ma ridurrebbe anche gli spread, perché la speculazione non avrebbe spazi di guadagno”.

Se tale funzione fosse stata espressamente prevista nello Statuto della Bce lo strumento parallelo extrastatutario del Mes sarebbe pleonastico. Giuseppe Conte ha ceduto alle pressioni delle cancellerie di Berlino e di Parigi il cui scopo col Mes è di tenere sotto scacco le dinamiche interne degli altri Paesi membri dell’eurozona considerati ancillari al patto di potere franco-germanico. Il premier ha fatto il suo bene, politicamente parlando. Ma corrisponde al bene degli italiani? No. Il sospetto che, con la firma apposta al Trattato, venga demolita una base portante della nostra sovranità è forte. Ci consegniamo all’asse carolingio e al suo Ius vitae ac necis sulla democrazia italiana. Molte cose s’immaginava potesse diventare l’Unione europea per i popoli che la costituiscono, ma non una prigione senza porte d’uscita e senza finestre. Ahinoi!

Aggiornato il 13 dicembre 2019 alle ore 13:50