
La carezza è di Nole. “So che la salute mentale è un argomento di cui non si è parlato molto nel mondo del tennis, ma penso che meriti più attenzione. Onore ai giocatori che hanno il coraggio di parlarne apertamente”. La crisi è di Sascha. “A volte mi sento molto solo in campo. Sto cercando dei modi per uscire da questo vicolo cieco, ma continuo a ricadere nello stesso buco. Non è una questione di tennis, mi sento solo nella vita in generale in questo momento e non è una bella sensazione. Chiederò aiuto? Forse sì. Per la prima volta nella mia vita ne ho bisogno”. E ancora. “Ho perso la gioia in tutto ciò che faccio. Nemmeno quando vinco provo quella felicità e quella motivazione per andare avanti. Vado a dormire senza la motivazione per alzarmi il giorno dopo”. La ruota gira sempre più veloce. E, per i criceti, uscirne si fa sempre più drammatico. Il vero incubo, poi, comincia proprio una volta che ne sei fuori. Il vuoto di Alexander Zverev è lo stesso di Matteo Berrettini, che si prenderà l’ennesima pausa (“Ora devo riflettere, non so cosa mi aspetta. Sono stanco di stare sempre a rincorrere. Ora non so che fare.”), e del ragazzino belga Zizou Bergs, molto promettente e già molto stressato (“Quando il diavolo nella mia testa prende completamente il sopravvento, divento tutto tranne che me stesso: è venuto il momento di staccare un po’ dal tennis.”).
Una carneficina legalizzata, insomma. La novità è che nessuno vuole più leccarsi le ferite solo in privato. Parlarne apertamente, come ha detto Djokovic, aiuta. E dalla ruota non stanno uscendo solo criceti con racchetta e bandana. Anche nel ciclismo si stanno moltiplicando i casi di esaurimento nervoso e stress eccessivo. La differenza rispetto al tennis è che le vittime si tengono tutto dentro. Magari continuano a correre, con la morte nell’anima e la testa spenta, senza tuttavia cercare un riparo diverso dal volersi chiudere in se stessi. Prendere atto della propria fragilità è una consapevolezza con cui fare i conti con discrezione e a bassa voce. Il senso di vergogna, e di fallimento, prevale sulla necessità della condivisione. Chi non regge tempi e modi dello spettacolo, deve farsi discretamente da parte. E tornare nella ruota quando avrà smaltito la botta. Il “sabbatico” non è una necessità che riguarda i professionisti del terziario, i super manager, gli chef stellati o perfino le maestre elementari. Anche per lo sportivo professionista, la “pausa” è fondamentale per ricaricare le batterie e svuotare la testa.
Ad allarmare è il fatto che l’attività fisica, amatoriale e/o professionistica che sia, stia ormai perdendo la sua funzione benefica strutturale su fisico e mente, umore, benessere e felicità. Altro che endorfine, serotonina e dopamina. Qui si muore. Dentro, soprattutto. Fare sport fa male alla salute, soprattutto mentale. Uno sport, naturalmente, gonfiato dalle logiche della competizione e del denaro. Il mercato, dunque: bestia affamata che vuole fare soldi su ogni attività umana. E che da decenni, troppi decenni, ha messo nel mirino lo sport, mammella da spremere fino all’ultima goccia (vedi alla voce “mondiale Fifa per club”) per lucrare l’impossibile. L’imperativo è consumare. E consumarsi. Fino a bruciare. In questo senso, è proprio il burn out dei corridori a fare sensazione. Soprattutto perché, come si accennava, a differenza dei tennisti, che cominciano ad avere un po’ meno problemi a parlarne con i media o sui social, i ciclisti tendono a rimanere “nella pancia del gruppo”, senza farsi notare troppo, e a farsi trascinare fino al traguardo di giornata. Senza slanci. “Perché il burn out resta un tabù nel peloton”, titolava giorni fa il quotidiano belga Le Soir.
La riflessione nasce da quanto accaduto a Loic Vliegen, 31anni in forza alla Wagner Bazin, la cui pedalata negli ultimi 18 mesi è stata molto silenziosa. Un anno e mezzo per uscire dal silenzio e tirare fuori l’indicibile. “Stanchezza estrema, squilibrio interno, sofferenza silenziosa”: tre compagni di un viaggio senza bussola. La logica della prestazione “non ti lascia la possibilità di essere debole”, ha scritto sui social. Ma a differenza del tennista, la cui solitudine, soprattutto in campo, è strutturale, e che proprio per questo può concedergli la facoltà di capire quando fermarsi e adattare la sua stagione ai messaggi che testa e fisico gli mandano, per il ciclista è tremendamente differente. C’è da rendere conto al proprio direttore sportivo, agli sponsor, ai compagni di squadra, e pure agli avversari, che non vedono l’ora di vederti arrancare alla prima collinetta: piuttosto che mollare o ammettere difficoltà che potrebbero tradursi in un fallimento (non sia mai...), si preferisce rispondere a logiche indotte di abnegazione e resilienza (la famosa e immancabile “resilienza”…). Correre in gruppo può anche aiutare a nascondere le debolezze, ma non fa altro che allungare l’agonia. Se il tennista non può fingere più di tanto, rendendo così inevitabile il “sabbatico”, la convivenza forzata nel plotone permette al corridore di dissimulare, agli altri e a se stesso, lo smarrimento psico-fisico.
Meglio una demolizione controllata che una deflagrazione improvvisa. Lo pensava Loic Vliegen, ne erano convinti altri come Arnaud de Lie, Cian Uijtdebroeks. Roba impronunciabile, come il “mostro” che si sta mangiando la loro anima. Comprimari, si dirà (cinicamente). Mezze figure divorate dall’ansia da prestazione e da qualche medagliuccia degli anni giovanili. Sarà. La luce però si può spegnere per tutti. E se tocca al numero 3 del tennis mondiale può capitare pure a qualche padre eterno della pedivella. Ognuno, avverte Vliegen, “può attraversare momenti complicati, nessuno ne è risparmiato: e riconoscerlo non è una debolezza. È umano”.
Aggiornato il 08 luglio 2025 alle ore 12:27