
Anche Luciano Spalletti ha liberato l’armadietto di Coverciano, logorato dai risultati deludenti della Nazionale di calcio e dallo spettro di una nuova esclusione dalle competizioni che contano. Ancora una volta il mondo degli addetti ai lavori si interroga sugli errori commessi dal nostro commissario tecnico e sul misterioso morbo che attanaglia il calcio nostrano. A costoro ci permettiamo sommessamente di ricordare che, se Nostro Signore assumesse la guida della Nazionale di calcio, probabilmente raccoglierebbe la stessa miseria in termini di risultati. Prima però dovrebbe certificare di avere esperienza di calcio giocato e frequentare il corso allenatori Uefa B (oggi non si chiama più così). Poi accumulare l’esperienza necessaria ad entrare in graduatoria per il corso Uefa A e infine – attraverso la stessa trafila – frequentare il costosissimo corso Uefa Pro che si tiene a Coverciano e mollare tutto per dedicarsi unicamente alle attività didattiche. Nostro Signore dovrebbe essere preferibilmente Toscano, vista l’alta percentuale di allenatori toscani (probabilmente per vicinanza a Coverciano), ed avere la fortuna di entrare nel circuito che conta fatto di procuratori, sponsor, associazioni, presidenti e portatori d’acqua. Il settimo giorno l’Altissimo non potrebbe riposarsi perché c’è la partita, e proprio in questa occasione avrebbe la possibilità di arguire che il nostro calcio è malato a partire dai cosiddetti “primi calci”.
I bambini non giocano più per strada allenandosi a fare battimuro, continui uno contro uno in partite interminabili, tutti contro tutti e via discorrendo. Frequentano la scuola calcio che spesso è un mondo totalmente improvvisato, una macchina da soldi ove i genitori sono costretti a portare i propri figli desiderosi di imparare i misteri del pallone. Sovente sono – come dicevamo – universi improvvisati dal punto di vista organizzativo e dal punto di vista didattico: poca tecnica di base (passaggio, dribbling, controllo, palleggio, tiro, conduzione, corsa, ricerca dello spazio) e molta costruzione dal basso, tiki taka, passaggi corti e rapidi, gioco facile e agonismo. Fuori dal campo un coacervo di genitori che si sentono tutti Pep Guardiola e che reputano di avere in casa un fenomeno e quindi alimentano litigi, competizioni tra bambini e tensioni varie.
Molto spesso le scuole calcio non sono collegate in maniera stretta a società professionistiche per cui, finita la trafila, il giovanotto più tenace dovrà fare da solo finendo molto spesso nelle squadre dilettantistiche. Qui in genere ci sono società che a febbraio hanno già finito i fondi, allenatori sovente “fai da te” (in Italia siamo tutti allenatori), campi impraticabili e docce fredde. Peccato che ci arrivino spesso con un bagaglio tecnico molto basso e con una educazione tattica inesistente, generando di conseguenza un livello di gioco sconfortante e un tentativo di metterli in campo degnamente che spesso assomiglia più a un accanimento terapeutico. Il tutto fino alla Lega Pro e al calcio professionistico ove probabilmente costoro non arriveranno mai per evidenti limiti tecnici e perché ci sono delle barriere all’ingresso fatte da gruppi di interessi, da agenti e da affaristi.
A nessuno di noi sono sfuggiti i numerosi servizi delle Iene che hanno messo in luce il mercimonio tra intermediari e direttori sportivi e le cifre stratosferiche che le famiglie devono pagare sotto banco per “avere la possibilità” di giocare nelle serie maggiori (le chiamano sponsorizzazioni). Questo significa che i talenti non emergono mai? Chiaramente no, per il talento esiste sempre la possibilità di essere notato e valorizzato ma all’interno di un sistema molto complesso e a volte castrante che quindi toglie linfa al calcio maggiore facendo mancare i cosiddetti grandi numeri.
Altro discorso per i settori giovanili delle grandi squadre, che sono l’unica vera occasione per lo scouting dei giovani talenti ma che costituiscono un’élite difficilmente accessibile dai più. Basti pensare che nascere al sud significa già “partire in fuorigioco” data la penuria di squadre stabilmente presenti nelle serie maggiori. Per quanto ormai anche i settori giovanili che contano sono pieni di calciatori stranieri che, per una serie di motivi di tipo economico, sono più appetibili dai grandi club. Questo sistema perverso fa sì che, anche nella massima serie, il giocatore italiano sia una particella di sodio, un’eccezione, uno straniero in Patria. Solo il caso di aggiungere che le multinazionali nel campo dei procuratori e le proprietà sovente straniere dei club fanno il resto, rendendo il calcio italiano un pappone che di italiano ha pochissimo e di qualitativo ancora meno
Il calciò ormai è finanza, speculazioni, plusvalenze e, per ogni Antonio Cassano che emerge, conviene prendere per motivi misteriosi un Joaquín Correa e un Artem Dovbyk. Stesso dicasi per il bravo Pio Esposito, che ha il brutto difetto di chiamarsi Esposito e non Taremi. Gli ultraottantenni alla guida del calcio tricolore – se hanno la forza, l’umiltà e la competenza di farlo – dovrebbero comprenderlo e passare la mano. In tutto questo marasma, le colpe di Luciano Spalletti come ct della Nazionale sono veramente trascurabili.
Aggiornato il 12 giugno 2025 alle ore 10:34